35 anni dopo la caduta del Muro di Berlino l’Europa è di nuovo squarciata a metà e devastata da guerre intestine. Cosa rimane allora di quel simbolo di libertà?
Dicono che chi sta facendo la Storia non ne sia inconsapevole finché uno spettatore esterno non glielo fa notare: ma le persone che dopo 28 anni di separazione varcarono il Muro che spaccava Berlino in due, nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1989, il peso della Storia sulle spalle lo devono aver sentito per forza di cose. Il dopoguerra infinito della Germania si concludeva 35 anni fa con gli abbracci increduli e sporchi di calcinacci di famiglie e amici che avevano sopportato il dolore della separazione dei due blocchi, Berlino Est in mano ai sovietici e Berlino Ovest culla dell’Occidente. Quando la Cortina di ferro crollò migliaia di persone si riversarono dall’altra parte e la riunificazione tedesca segnò il destino non solo di un popolo ma di un intero Continente. Il nostro.
In 35 anni molte cose sono cambiate: quali e quanto profondamente lo abbiamo chiesto al professor Matteo Scotto, direttore ricerca e progetti a Villa Vigoni, Centro italo-tedesco per il dialogo europeo.
Che Europa è quella che quest’anno celebra il 35esimo anniversario della caduta del muro?
«L’Europa si trova nel mezzo di un processo di trasformazione del suo sistema di riferimento. Non in senso retorico, ma di metanoia – per dirla in termini psicoanalitici – cioè di mutamento fondamentale della propria personalità. Niente del mondo di 35 anni fa, all’alba della caduta del Muro di Berlino, oggi ha ancora un senso. La storia non è finita nel novembre del 1989, al contrario la democrazia liberale di matrice occidentale e il diritto internazionale non si sono imposti come sistema politico-culturale predominante. La guerra è inoltre tornata, come sempre ritorna nella storia del genere umano. L’Europa è oggi un’oasi di pace e democrazia circondata da conflitti e instabilità. Questo se con Europa intendiamo l’Unione europea, e cioè un costrutto politico-istituzionale sui generis creato nell’appendice del Continente euroasiatico, certamente possiamo essere orgogliosi di quello che siamo riusciti a creare noi “europei” in 35 anni. Siamo passati dai 12 Stati firmatari del Trattato di Maastricht del 1992, che in qualche modo ha suggellato l’Ue post-caduta del Muro e dell’Unione sovietica a 28 Stati (ora 27 dopo l’uscita del Regno Unito). Rispetto ad allora, abbiamo accresciuto in modo sistematico la cooperazione in seno all’Ue, non solo con un’Unione economica e monetaria, ma discutendo ora a livello sovranazionale nuove competenze in ambiti all’epoca impensabili come la politica estera, la difesa o la salute pubblica. L’Ue è dunque un progetto politico di successo, che si è espanso sia geograficamente che strutturalmente. Tuttavia il mondo intorno a noi non si è fermato, anzi, è andato avanti più veloce e diversamente da come ci saremmo mai immaginati».

La caduta del Muro di Berlino è simbolo di un’Europa democratica, unita. Oggi guerre e crisi hanno spaccato di nuovo il Continente e il mondo intero: cosa rimane di quella lezione storica così importante?
«Rimane il successo di ciò che siamo come europei e quello che abbiamo costruito in questa piccola parte di mondo in 35 anni ne è la prova. Un gruppo di Stati, figli di guerre e divisioni fratricide andate avanti per secoli, che credono nella cooperazione pacifica e nella democrazia liberale – anche se oggi qualcuno all’interno dell’Ue tenta pericolosamente di metterlo in discussione – hanno deciso di perseguire l’unità politica sovranazionale. Non è poco. Siamo anche una felice parte dell’Occidente dove crediamo che lo Stato sociale e la sostenibilità ambientale siano irrinunciabili. María Zambrano, una grande filosofa spagnola, diceva proprio che l’Europa è ciò che di essa ci risulta irrinunciabile. E tutto questo a me pare irrinunciabile».
L’ambasciatore tedesco in Italia ha detto che l’essenza della convivenza in Europa è “il coraggio di lottare per i valori democratici”. Secondo Lei, quel coraggio sta venendo meno?
«Sottoscrivo quanto detto dall’Ambasciatore Lucas. Pace e democrazia non sono assiomi, principi evidenti di per sé. Sono una lotta costante nella vita quotidiana di ognuno di noi. Sono valori che ci portiamo dentro come europei e che sono il frutto della nostra storia. Il rischio è di dimenticarsene e quindi sì, smettere di combattere per difenderli, specie nei confronti di quegli individui o gruppi di persone che internamente alle società europee non ne riconoscono il valore. La soluzione non è però la censura di chi la pensa diversamente, ma il confronto. Solo con il confronto, franco e aperto, la democrazia salva sé stessa».

Sulla scia degli avvenimenti degli ultimi mesi, la Germania ha reintrodotto i controlli alle frontiere: è la fine dell’Accordo di Schengen?
«Non è la prima volta che Schengen viene sospeso. Non ne farei una lettura eccessivamente drammatica. Ricordiamoci che quando è in gioco la sicurezza nazionale, reale o percepita, gli Stati agiscono con piena legittimità. Ci sono inoltre accordi vigenti come l’Accordo di Dublino che sono in fase di rinegoziazione in sede europea. Siamo in una fase delicata, sia sui fronti di guerra che per le sfide che ci impone una crescita sempre maggiore dei flussi migratori. Cerchiamo di essere pazienti e rispettare i tempi della cooperazione in Europa, che come diceva qualcuno è paragonabile ad un adagio. Richiede pazienza, oltre che minuzioso lavoro diplomatico e politico. Tuttavia, come i tempi recenti hanno dimostrato, l’Ue ha gli strumenti, se lo vuole, per far fronte anche a queste grandi sfide».
Si può parlare, secondo Lei, di una nuova guerra fredda?
«Al mutare dei contesti e degli attori in campo, muta anche la storia: oggi l’ordine internazionale è molto diverso da quello della guerra fredda. Ci troviamo in un mondo non più bipolare, con Stati Uniti da una parte e Unione sovietica dall’altra, ma multipolare e apolare, cioè con molti attori diversi e sempre meno punti di riferimento, Occidente incluso. Certamente USA e Cina sono due attori globali predominanti con una competizione tra loro evidente, ma oggi credo sussistano nelle relazioni internazionali cerchi concentrici e zone grigie maggiori rispetto agli anni della guerra fredda. D’altra parte il sistema unipolare uscito dalla caduta del Muro non poteva andare avanti per sempre, e forse pensarlo è stato il più grave errore che abbiamo commesso».
La grande sfida per l’Europa e gli Stati nazionali europei che ne costituiscono “l’ossatura” è dunque cambiata e, oggi, è necessario capire prima di tutto come collocarsi in un mondo dove il diritto internazionale e la democrazia liberale non sono più “gli unici punti di riferimento di un sistema cartesiano pensato dall’Occidente”. Come sottolinea il professor Scotto, il nostro “è un mondo fatto di regionalismi, frammentato, dove gli equilibri sono più complessi da raggiungere”. Ma complesso non è sinonimo di impossibile e, d’altronde, recuperare un equilibrio potrebbe essere, ora come allora, l’unica speranza dell’umanità.