Punto di congiunzione fra i popolari e i conservatori, forte di una formazione squisitamente democristiana, il ministro al banco di prova della Commissione
L’andreottiana e indimenticata lezione dei due forni ha ancora molto da insegnare. Quando coniò questa espressione, il divo romano si riferiva all’opportunistica e disinvolta pratica politica di comprare il pane tanto dal forno di destra quanto da quello di sinistra, in base a dove convenisse. È con questa strategia che, nel poltronistico braccio di ferro per i posti di comando europei, il Governo italiano cerca di ritagliarsi un ruolo di spicco nonostante il mancato appoggio alla Commissione e alla sua nuova maggioranza. L’ariete da sfondamento si chiama Raffaele Fitto, indicato da Giorgia Meloni e confermato da Ursula Von der Leyen come commissario europeo. Il suo nome, principalmente legato a quello del PNRR e della coesione territoriale, è sbiadito e insipido ad un occhio poco attento, ma dalla sua nomina dipende molto del nostro futuro in Europa e non solo.
Commissione sotto esame: la squadra Von der Leyen bis
Ministro per gli Affari Europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto è un fedelissimo di Meloni. Dalla sua c’è una lunghissima esperienza in politica, cominciata appena diciannovenne in Consiglio Comunale e culminata a Strasburgo dove Fitto si costruisce una nomea credibile di moderato ed europeista. Al salentino spetta la delega alla Coesione e alle Riforme, oltre che una delle 6 vicepresidenze esecutive. Fra il politico pugliese e la carica di commissario c’è però ancora l’ostacolo di tanti nemici e, se di amici se ne vedono pochi, non mancano invece estemporanei e insoliti alleati in vena di cortesie. Più che la fiamma tricolore, la carta vincente di Fitto, che condivide i natali a Maglie nel leccese con Aldo Moro, sarà lo scudo crociato.
Gli aspiranti commissari devono infatti passare il vaglio di due esami: il primo davanti alla Commissione del loro incarico (nel caso di Fitto, quella di Bilancio), il secondo per verificare la posizione personale del candidato e i possibili conflitti d’interesse in atto. Dopodiché, è il voto dell’Assemblea Plenaria ad approvare definitivamente le nomine che diventerebbero operative da novembre. Più che la preparazione e la competenza del ministro, il test è una valutazione d’intenti per capire se Fitto sia intimamente allineato con il tracciato politico di questa legislatura europea, pur con tutti gli attriti emersi negli ultimi mesi fra la Commissione e il suo Partito. Ricordiamo infatti che il 18 luglio scorso gli eurodeputati di Fratelli d’Italia avevano votato contro la conferma alla Presidenza della Commissione di Ursula Von der Leyen, diversamente dalla cautela con cui Meloni si era astenuta in sede di Consiglio Europeo. La posizione del suo Partito venne poi però trascinata dall’onda del successo delle elezioni europee, e il resto è storia. Il vaglio delle Commissioni è oggetto di discussione pubblica in plenaria e non di rado persegue motivazioni più politiche che tecniche: è fondamentale, com’è facile intuire, che ogni membro dell’Esecutivo europeo ne condivida appieno le priorità programmatiche e l’indirizzo politico. Ed è altrettanto facile intuire che socialisti, liberali e verdi, che di fatto compongono la maggioranza Ursula insieme al PPE, non hanno visto di buon occhio l’attribuzione di un ruolo così cruciale a un esponente dell’opposizione, addirittura di un partito antitetico e spesso euro-critico come ECR.

Se per Meloni nominare Fitto, quindi farne a meno, è stata una “scelta dolorosa”, sarebbe altrettanto per i socialisti che hanno mandato “un chiaro avvertimento sul prossimo mandato della Commissione”, seguiti a stretto giro dai verdi, perché “il presidente della Commissione deve garantire che il collegio sia pronto a onorare pienamente le linee guida politiche che abbiamo sostenuto”, avverte il presidente del PSE Stefan Löfven. «Deve dimostrare se sta con l’Europa o con le forze politiche che vogliono deteriorare il progetto europeo» è ancora più netta la presidente del gruppo S&D Iratxe Garcia Perez. Il PD di Elly Schlein incede cauto e promette di mantenere una “corretta postura istituzionale” e un “atteggiamento costruttivo” scevro da pregiudizi; nessun italiano cum grano salis osteggerebbe l’attribuzione di una posizione di comando così rilevante ad un connazionale, anche se i liberali di Renew Europe, già promotori di liste transnazionali, ribadiscono un punto già saldo nei Trattati: i commissari devono «garantire che non nazionalizzeranno mai la politica europea, ma al contrario europeizzare le questioni nazionali ogni volta che parlano al pubblico del loro Paese di origine». Chi rema contro la candidatura di Fitto però potrebbe non impugnare il manico del coltello saldamente come crede: la sua nomina ha dimostrato cristallinamente che a dare le carte in tavola è ancora e soprattutto il PPE, a buon diritto il più votato (188 seggi, S&D arrivato secondo si ferma a 136).

Che i Partiti progressisti avrebbero osteggiato la candidatura di Fitto era più che prevedibile. Ma “nell’UE non si può trascurare l’Italia”, e bisogna “rispettare i risultati ottenuti dal Governo italiano su molte questioni europee”: a ribaltare i giochi è stato Manfred Weber(che cita Sergio Mattarella), presidente del PPE nonché nemico interno numero uno di Von der Leyen – anche nelle sue scarpe c’è ancora qualche sassolino da togliere. «Il mio amico Raffaele Fitto è pienamente sostenuto da Antonio Tajani – altro suo intimo amico. – È un costruttore di ponti e ha dimostrato competenza economica, ad esempio quando ha attuato con successo il PNRR. Sarà una grande risorsa per la prossima Commissione» rincara la dose sul Corriere. «I Verdi – aggiunge – devono decidere se votare a fianco delle forze europeiste o con Orbán, Le Pen e altri». Del resto, Weber non è il solo a ritenere che al profilo del ministro spetti di diritto un posto in Commissione dato che, “come molti riconoscono”, incarnerebbe alla perfezione un “possibile elemento di congiunzione tra Popolari e Conservatori”, così sostiene il popolare Mario Mauro. Fitto raccoglie anche le simpatie dell’ex vicepresidente del PE, già a capo dei socialisti, Gianni Pittella che lo promuove come “autorevole e competente, che conosce bene i meccanismi europei. Insomma, un democristiano: e per me è un complimento”. Evidentemente non tutti nel PD si sono dimenticati di come, quando cinque anni fa fu il turno di Paolo Gentiloni, l’avversario Fitto si spese per facilitarne l’elezione a commissario. Anche Antonio Decaro, sindaco di Bari eletto a Bruxelles, assicura che “nel panorama di questo Governo Fitto mi sembra la scelta migliore: uno con cui si può costruire un dialogo” e quindi “se va a fare il democristiano” troverà più appoggio di quanto crede. «Fitto è molto più europeista di tanti altri» assicura anche Paolo De Castro, eurodeputato PD, e persino Nicola Zingaretti apre all’ex collega salentino. Il pane sfornato è ancora caldo, il ministro è uscito a comprarne un chilo.
Popolare o conservatore?
55 anni, Raffaele è figlio di Salvatore Fitto, politico della DC e presidente della Puglia, morto prematuramente in un incidente. Seguendo le orme paterne, Fitto governa la Puglia dal 2000 al 2005 confermandosi il più giovane presidente di Regione della storia della Repubblica. Prima di entrare nel Governo Meloni era stato ministro dei Rapporti con le Regioni (Berlusconi IV). Una volta uscito da FI, Fitto prova a diventare regista di un nuovo polo riunendo centristi, conservatori, popolari e democristiani nel gruppo Direzione Italia (poi Noi con l’Italia), cui aderiscono, fra gli altri, anche Maurizio Lupi, Enrico Costa, Enrico Zanetti, Flavio Tosi. L’esperimento fallisce e Fitto rimedia tra le braccia di Fratelli d’Italia; grazie alla profonda stima che Meloni nutre nei suoi confronti, diventa co-presidente dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR).
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