Il 24 ottobre del 79 d.C. il Vesuvio la seppellisce sotto una pioggia di detriti. Ancora oggi un terzo della città attende di vedere la luce ma gli scavi non smettono di regalare sorprese
Nel 79 dopo Cristo Pompei era una città piena di vita: secondo le stime, abitavano qui almeno 20mila persone. Le sue strade, ampie per l’epoca, erano attraversate da carri e decine di pompeiani si riversavano lungo i suoi marciapiedi dopo aver assistito allo spettacolo odierno all’Odeion, uno dei teatri, il più trafficato, della città. La via principale era attorniata da negozi, locande, bar, panifici e la vita scorreva vivace, frenetica e tranquilla allo stesso tempo, scandita dal ritmo delle abitudini di una società che appare così distante e così simile alla nostra. Una società basata su una netta divisione in caste, certamente, ma molto più aperta sotto altri punti di vista: una società multietnica, in cui la parola “razzismo” non aveva alcun significato, in cui due uomini potevano vivere insieme senza che questo sconvolgesse chicchessia, ma in cui gli schiavi – un terzo della popolazione – venivano trattati al pari di bestie da soma. Una quotidianità che non si fa fatica a immaginare: i pompeiani alla mattina si recavano alle terme, facevano esercizio in palestra per poi lavarsi, compravano il pane, osservavano gli annunci elettorali dipinti sui muri della città e presumibilmente discutevano della campagna elettorale in atto, prima di tornare ai propri impieghi e poi alle proprie domus. Le case private.
Una quotidianità che si dipanava sempre uguale, anche in quell’ultimo autunno del 79 dopo Cristo. Era un periodo un po’ complesso: c’erano state diverse scosse di terremoto, nulla che avesse spinto le persone ad abbandonare la città, perlomeno non tutte, nemmeno la maggior parte; però abbastanza da creare qualche preoccupazione, soprattutto negli ultimi giorni di quell’ottobre già fresco, in cui le terme erano state chiuse perché mancava l’acqua. Si trattava di un grande disagio: alle terme era ammessa tutta la popolazione, si pagavano davvero poco perché l’obiettivo del Governo era di evitare che scoppiassero epidemie per le condizioni igieniche della popolazione. Pertanto questa zona era diventata il cuore pulsante della città. Il terreno era stato deformato dagli eventi sismici e il sistema idrico, per quanto ingegnoso e innovativo, si era incagliato. La mancanza d’acqua era stata il primo grande segnale di crisi, ma i romani non avevano gli strumenti per capire quanto grave fosse la situazione che stavano vivendo. Alle loro spalle il Vesuvio non era che un monte basso, una sorta di dorso di balena: qui c’erano boschi, si andava a cacciare i cervi, a fare legna; nulla, nel paesaggio, rivelava con la dovuta efficacia la portata distruttiva che quel vulcano, che Leopardi avrebbe definito in seguito “il formidabile monte sterminatore” avrebbe potuto avere. Che avrebbe effettivamente avuto.
L’eruzione del Vesuvio

La mattina del 24 ottobre del 79 d.C. fin dalle prime luci dell’alba i pompeiani avevano sentito un forte rumore lontano, come un temporale; da giorni probabilmente convivevano con scosse del terreno più o meno leggere ed è facile che non abbiano prestato troppo orecchio a quello che sarà parso in quel momento nulla più che un evento atmosferico. Intorno all’ora di pranzo però, all’improvviso, il condotto interno del Vesuvio si è riaperto e con un’esplosione fortissima, un boato immenso, ha eruttato, sparando in aria una colonna altissima di cenere, detriti, lapilli; secondo gli esperti quel suono così forte ci ha messo 24 secondi per arrivare a Pompei. È facile immaginare che tutta la città si sia riversata per le strade, per vedere cosa stesse succedendo, meno semplice è immaginare cosa abbiano pensato: la maggior parte di loro non sapeva nemmeno di trovarsi di fronte a un vulcano e non esistevano all’epoca esplosivi; probabilmente si è pensato a un incendio, alcuni avranno ipotizzato qualche evento divino. In appena mezzora, la colonna sopra il Vesuvio è arrivata a 14 chilometri di altezza e ha iniziato ad aprirsi come um ombrello per via dei venti, allargandosi a raggiera fino a coprire del tutto il sole, mentre l’odore di zolfo si espandeva nascondendo qualunque altro odore in città. Compreso quello della paura. Su Pompei si è scatenato l’inferno: una tempesta di grandine, ma una grandine fatta di sassi, di pomici, pietre leggerissime si ma che cadevano da un’altezza e a una velocità impressionante e che non accennavano a rallentare. I cittadini sono scappati, chiudendosi nelle proprie case, cercando di raggiungere i propri cari, serrando porte e finestre, nell’attesa che la tempesta passasse.
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Piovve cenere e detriti fino all’alba del giorno dopo e poi, d’un tratto, calò il silenzio. Il mucchio di pomici e cenere aveva a quel punto sepolto la città, bloccando le porte e le finestre, ma chi non era rimasto intrappolato, chi riuscì a trovare un modo per uscire di casa, passando quand’anche dal tetto, uscì tra i detriti: aveva smesso di piovere sassi, era il momento per scappare. Non c’era tempo di fermarsi nemmeno ad aiutare chi si sentiva urlare e piangere, sepolto sotto le macerie. I terremoti avevano fatto crollare tetti, erano scoppiati incendi: Pompei era diventata un girone dell’inferno. Si poteva solo cercare di fuggire, scappando verso il mare, che pareva l’unica via di fuga percorribile.
Quello che i pompeiani non sapevano era che l’eruzione non era affatto finita: la colonna che si era creata sopra il Vesuvio al momento dello scoppio aveva raggiunto i 32 chilometri di altezza ma il vulcano non riusciva più a sostenere quella fontana verso l’alto e, al diminuire della spinta, quella colonna che stava salendo si fermò e cominciò a scendere, trasformandosi in una valanga ustionante che percorse i lati del monte dando al Vesuvio l’aspetto che vediamo oggi, con cui lo riconosciamo e lo immortaliamo nelle nostre foto; una valanga che arrivò sulle città alle sue pendici alla velocità di 100 chilometri all’ora con temperature di 600 gradi e investì Ercolano e tutti i suoi abitanti, che non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo prima di essere vaporizzati. Il termine per definire questa valanga è corrente piroclastica, ma i francesi la chiamano “nube ardente”. Una tempesta di fumo che ribolle di gas, ceneri ustionanti e tutto ciò che incontra lungo la via, compresi i corpi umani. Un angelo della morte, che dopo aver raso al suolo Ercolano arrivò su Pompei, investendo tutti coloro che erano appena emersi dai tetti delle loro abitazioni crollate e che stavano correndo verso il mare per salvarsi la vita. La corrente arrivò ad ondate: la prima uccise tutti nei dintorni della città, Boscoreale, la Villa dei misteri; la seconda trovò la via spianata da quella che l’aveva preceduta e arrivò fino alla città, sorprendendo alle spalle chi stava scappando. La terza fu la più devastante e, quando arrivò la quarta, non era rimasto più nessuno per raccontarla.
Pompei non fu mai raggiunta da un singolo schizzo di lava. Ciò che la seppellì fu questa valaga di gas, cenere, lapilli, che venne giù come un fiume incandescente anticipata da pezzi di vulcano caduti come meteore su strade, negozi, abitazioni, sugli stessi abitanti della città. La morte calò su Pompei come un manto bollente che congelò tutto seppellendolo sotto una coltre così spessa e invasiva da fermare non solo la vita, ma anche il tempo. Ci vollero giorni perché arrivassero i soccorsi e quando infine la flotta imperiale venne mandata da Tito, forse venuto lui stesso o forse rappresentato da qualche emissario, Pompei non esisteva più. Si vedeva solo qualche tetto, qualche rovina, ma la città era completamente scomparsa, sepolta sotto tre metri di materiale vulcanico. E il Vesuvio, che fino a quel momento non era stato che parte incurante del paesaggio, adesso faceva più paura di Dio. Si scelse di non ricostruire, si scelse anche di non addentrarsi nelle rovine: Pompei venne abbandonata a sé stessa, in quel suo loop temporale per cui, mentre il mondo andava avanti, lei sarebbe rimasta sempre ferma al 24 ottobre del 79 dopo Cristo. Anno dopo anno. Secolo dopo secolo.
Un tesoro archeologico

Pompei è diventata il sito archeologico più celebre al mondo e, dal 1997, è patrimonio dell’Umanità UNESCO. Il parco non comprende solo la città di Pompei, antico centro romano che come abbiamo visto è rimasto “cristallizzato” nel 79 dopo Cristo, ma anche i comuni di Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Boscoreale, Boscotrecase e Trecase, arriva fino al confine del Parco del Vesuvio. La città di Pompei, da sola, ha una superficie di 66 ettari circa e la superficie scavata nel momento in cui l’autrice scrive è di circa 44 ettari. Sono stati portati alla luce 1.500 edifici, tra domus e moumenti, e – dai dati del sito del parco -: due milioni di metri cubi di strutture murarie, 17mila metri quadri dipinti, 20mila metri quadri di intonaci, 12mila metri quadri di pavimento e 20mila metri quadri di coperture protettive. Ogni anno arrivano a Pompei oltre tre milioni e mezzo di visitatori: è il secondo sito archeologico più visitato in Italia dopo il circuito Colosseo-Fori-Palatino. Gli scavi non si sono mai fermati: un terzo della città è ancora sepolto sotto i residui vulcanici dell’eruzione, ma, man mano che la tecnologia avanza e si scoprono nuove tecniche di rilevamento, è sempre più facile fare nuove scoperte.




Si tratta di un vero e proprio tesoro archeologico che non ha paragone in tutto il mondo. Visitare Pompei significa entrare in una macchina del tempo e viaggiare a ritroso fino a un’epoca che facciamo fatica finanche a immaginare ma che scopriamo essere così sorprendentemente simile alla nostra. Lungo i lastricati di strade millenari si vedono i solchi creati appositamente per i carri, non frutto dell’usura ma di una precisa scelta urbanistica. Erano infatti studiati perché i carri potessero passare agevolmente senza “scontrare” le “strisce pedonali”, grandi massi che attraversano gli stradoni utili a non bagnarsi perché la via principale e le sue corrispettive, in città, n discesa diventavano quando pioveva veri e propri torrenti. L’acqua era infatti una grande alleata dei romani che, per primi, erano stati capaci di addomesticarla. Nel parco archeologico si vedono ancora oggi le fontane, disseminate per la città (solo i ricchi avevano l’acqua in casa, gli altri andavano a prenderla ai punti di raccolta appunto), e fa bella mostra di sé l’acquedotto. Le terme sono forse il luogo più simbolico degli scavi: la grande palestra, le sale organizzate per ambienti sempre più caldi, studiate per essere non solo luoghi di relax ma anche punto di incontro con amici e colleghi di lavoro. Si possono visitare le zone separate per uomini e per donne, gli spogliatoi, i corridoi. Uscendo dalle terme e proseguendo il giro si può percorrere il corso, la via principale, rinominata “via dell’abbondanza”, dove sorgono le domus, le case private: alcune estremamente lussuose, altre più modeste; come già detto, negli ultimi anni prima dell’eruzione Pompei era stata assediata da problemi di terremoti e di carenza d’acqua. Le famiglie più ricche avevano lasciato la città e le domus più belle erano state prese dai “nuovi ricchi”, vale a dire quella classe “borghese” che si era arricchita con il commercio, schiavi ad esempio che avevano fatto fortuna dopo esser stati liberati, che avevano costruito laboratori in domus bellissime. Un esempio è la lavanderia che sorge lungo via dell’Abbondanza appunto: davanti all’entrata è stato trovato lo scheletro di quello che si suppone esser stato il proprietario. La lavanderia, con i suoi spazi ampi e le vasche rinvenute dagli scavi, è il segno di una società che era in movimento, che mutava e si trasformava, e la città lo faceva con lei.
Alcune curiosità: in giro per le strade di Pompei si vedono spesso delle “edicole votive”, e in alcune di queste ci sono rappresentazioni sessuali piuttosto esplicite. Il fallo eretto, infatti, era un simbolo beneaugurante: significava fertilità, prosperità, era una sorta di “parafulmine” contro il malocchio. Una cosa che, a dire il vero, è arrivata fino a noi duemila anni dopo: il cornino di corallo rosso simbolo di Napoli che in moltissimi ancora oggi indossano, appeso al collo o su un braccialetto, è un fallo. Nel Medioevo erano stati banditi tutti i simboli di piacere della carne e quindi i falli eretti sono stati trasformati in cornini.
Ma girovagando per le strade della città si scoprono altre cose: all’entrata di alcune domus si vedono raffigurazioni di un cane legato a una catena, che fa comprendere come i cani fossero molto presenti nella vita quotidiana già dei romani; sulle pareti fuori dalle case si vedono i resti dei cartelli elettorali: al momento dell’eruzione c’era un’elezione in corso e i motti dei candidati erano incredibilmente simili a quelli attuali (in clima di Europee poi, possiamo comprendere particolarmente bene). Alcuni aspetti curiosi emergono anche dalla scelta dei sostenitori, per così dire: fuori da un locale un candidato usava le “aselline”, vale a dire le prosistute, per fargli pubblicità. C’era una grande lotta per il potere a Pompei, dove si eleggevano due sindaci perché si controllassero a vicenda; nelle domus dei banchieri era stato scoperto anche un certo giro di malaffare: si è capito che i banchieri si mettevano d’accordo con gli imprenditori per scegliere il politico da eleggere.
Insomma, girare per Pompei significa davvero immergersi in un mondo cristallizzato duemila anni fa che riscopriamo pullulante di vita oltre il velo di immobilità che permea i resti di una incredibile città fantasma. E quest’anno, nel 2024, sono state fatte nuove scoperte, raccontate da Alberto Angela in una puntata speciale di Meraviglie andata in onda su Rai1 e disponibile su RaiPlay.



Le nuove scoperte di Pompei
Dal 28 maggio del 2024 è possibile visitare le nuove aree degli scavi di Pompei. Le ultime campagne di scavo hanno portato alla luce ambienti nuovi, con nuovi dipinti, affreschi, e soprattutto nuove testimonianze di quella vita che correva frenetica finché non è stata congelata per sempre, immortalata in una polaroid fatta di cenere.
È emerso un nuovo isolato, chiamato l’Insula dei Casti Amanti, in cui i lavori sono ancora in corso e ogni giorno potenzialmente emergono nuove curiosità. Qui sono state trovate tre case, tutte presumibilmente comprate dai già citati “nuovi ricchi”. Una era stata trasformata in un panificio, con il forno aperto sulla via principale; al momento dell’eruzione però questo forno non era attivo, probabilmente perché con i terremoti che c’erano stati in precedenza era stato danneggiato. La seconda era diventata una locanda e l’ultima era rimasta invece una domus, una casa privata. Qui sono stati rinvenuti non solo degli oggetti – il cui colore è stato alterato dalla cenere passando da bronzo ad azzurro – quotidiani, come una brocca contenente probabilmente vino o acqua, ma anche dei resti umani. Vicino alla brocca infatti, scavando tra i lapilli sedimentati, a circa 20 centimetri dal terreno, è stata trovata una mandibola umana. Sotto c’era anche una vertebra, ma non è possibile che ci sia tutto lo scheletro: questo racconta ulteriori – raccapriccianti – momenti dell’eruzione del 79, permettendoci di tornare al punto “zero” di Pompei, quando la nube tossica ha coperto la città dilaniando i corpi e coprendo la città per ore e ore. Più avanti, nella locanda, è possibile vedere un antenato del nostro moderno barbecue: si è così scoperto che anche i pompeiani grigliavano la carne su apposite griglie, e ai romani è andato il brevetto del barbecue odierno, benché sia greci sia etruschi sapevano come cuocere questa pietanza. Fuori dalla locanda, dirigendosi verso la terza casa, c’era un cortile interno e qui è stato fatto forse il ritrovamento più umano, dolce e terribile di tutti: sul muro, è emerso un graffito di un bambino, probabilmente disegnato con un carboncino preso da quello stesso barbecue di cui abbiamo appena parlato. Un bambino di 7 o 8 anni secondo gli esperti, che ha disegnato scene sicuramente viste nell’anfiteatro: una caccia, con dei cinghiali e dei cacciatori, ma soprattutto i gladiatori. Le tracce della mano infantile si ripetono: in un altro punto è stato trovato il disegno di una mano, il piccolo aveva poggiato le dita sulla parete e tratteggiato il profilo del palmo con un carboncino. È commovente e devastante al contempo: sappiamo che nelle rovine sono stati trovati moltissimi scheletri di bambini, la cui vita si è fermata quel giorno, distrutta insieme alle macerie della città in cui erano nati.






Altri due scheletri, ma questa volta di adulti, sono stati rinvenuti all’entrata della terza casa, tra le due porte (una era una sorta di portoncino, l’altra segnava il vero e proprio ingresso nell’abitazione). I due scheletri appartengono a un uomo e a una donna e mostrano una scena molto tragica: i due, forse una coppia, sono rimasti intrappolati tra le due porte mentre fuori i lapilli crescevano e sono morti lì dentro, tra il portoncino che avevano aperto e la porta, che avevano trovato chiusa. L’uomo è stato il primo a soccombere, ed è stato trovato adagiato per terra, mentre la donna ha cercato di trovare respiro anche puntellandosi sul corpo del compagno ed è stata rinvenuta in posizione verticale, schiacciata, una mano protesa verso il cielo, ad anelare un po’ di ossigeno e la salvezza.





Moltissime le opere d’arte che si possono ammirare nei nuovi cantieri aperti al pubblico: affreschi che sembrano opere rinascimentali pur essendo stati dipinti centinaia di anni prima, stanze tutte dipinte, con esili architetture e figure mitologiche, che richiamano uno stile di Versailles che i pompeiani non avrebbero mai potuto vedere; e ancora scene che racchiudono le emozioni, le speranze, la vita quotidiana dei proprietari di casa, rappresentando gli ideali di bellezza, queste donne mostrate con i capelli sempre raccolti, ben acconciati, la pelle diafana, contrariamente agli uomini, virili e abbronzati. Il tema della virilità si ripete spesso, per lo stesso discorso già fatto di buon augurio e malocchio. Gli scavi nella Regio IX hanno rivelato anche un nuovo sacrario, con pareti dipinte in blu e figure femminile che affiancano le nicchie presenti al centro: sulle pareti ci sono le allegorie delle quattro stagioni mentre sul fondo quelle dell’agricoltura e della pastorizia.






In una delle ultime zone aperte agli occhi del grande pubblico è possibile seguire il lavoro degli archeologi, camminando su passerelle che permettono di passare sopra gli scavi in corso e di toccare con mano l’ampiezza del lavoro in corso ma anche di farsi un’idea più precisa di quanto sia stata effettivamente distruttiva la forza di quell’eruzione che è difficile anche solo immaginare.
Perché solo lì, in piedi su un passato che si snoda a metri e metri di profondità, osservando i cumuli di materiale vulcanico che vengono smaltiti per rivelare il monumento funebre di Pompei, si riesce a intravedere il volto fisico della morte.
di: Micaela FERRARO
FOTO: ANSA/SHUTTERSTOCK