Un fenomeno che torna ciclicamente a occupare le prime pagine dei giornali, ma necessita di un’analisi più profonda

I social network, croce e delizia dell’età contemporanea, sono il terreno più fertile per le challenge online. I media tradizionali, però, hanno provocato uno slittamento semantico e l’etichetta ha finito per essere legata a un ampio numero di contenuti. Cosa sono, dunque, le social challenge?

Come spiega il sito Internet Mind the Challenge – nato dalla collaborazione dei progetti di fact-checking e debunking Facta.news e Verificat, che lavorano al contrasto della disinformazione – le challenge online sono “contenuti diventati virali in Rete nei quali una o più persone si mettono alla prova in una particolare attività, invitando spesso altri utenti a fare lo stesso” e che presentano alcuni aspetti comuni, si tratta infatti di “un filmato che mostra un qualche tipo di performance (spesso fisica) e che, una volta pubblicato in Rete, raggiunge una discreta popolarità soprattutto attraverso i social network e grazie alla condivisione o all’imitazione. Centrale è la presenza dell’utente-protagonista che si immortala o viene immortalato mentre svolge un’azione. Più o meno implicito a seconda dei casi è l’invito a mettersi alla prova rivolto agli altri utenti”.

Una tra le più famose challenge propriamente dette è la Ice bucket challenge del 2014, nata per sensibilizzare le persone intorno alla sclerosi laterale amiotrofica e far incrementare le donazioni per la ricerca: prevedeva di versarsi (o farsi rovesciare) addosso una secchiata di acqua gelida.

Tenendo ben salda questa definizione sarà facile notare come i media riportino, sotto il nome di challenge online, anche contenuti che non presentano esattamente queste caratteristiche. Uno dei massimi problemi intorno al tema delle challenge online è, infatti, il modo in cui i media ne parlano, ne è un esempio evidente il caso della Blue Whale che pochi anni fa dominava la scena italiana e internazionale.

In Italia il fenomeno esplode mediaticamente nel maggio 2017, quando Matteo Viviani ne dà notizia nel programma tv Le Iene, ma della sfida si parla già da alcuni mesi nei giornali, italiani e non. La presunta sfida online prevede il superamento di una serie di prove fino a quella estrema, il suicidio, e sembra nascere in Russia nel 2015 a seguito del suicidio di una ragazza, Rina Palenkova. Da questa vicenda parte un articolo del 2016 di Novaya Gazeta che parla di “130 suicidi registrati tra il novembre del 2015 e l’aprile del 2016” ricondotti a gruppi e sfide interne al social russo Vk, l’articolo si basa su testimonianze di madri di ragazzi suicidi scontente delle indagini della polizia. Poco dopo è Russia Today a tornare sull’argomento Blue Whale sottolineando però anche le numerose critiche mosse ai colleghi di Novaya Gazeta e mettendo in luce come si sia trattato di un racconto lacunoso e che non dimostrava alcun collegamento tra i casi di suicidio e i social network. Anche il portale Meduza sosteneva come il giornale avesse parlato di suicidi senza analizzare il dato nel contesto e non basandosi su fonti ufficiali, verificate e verificabili. Nel febbraio del 2017 Sergei Khazov-Cassia per Radio Free Europe/Radio Liberty ricostruisce le vicende intorno alla Blue Whale e, analizzando le varie problematicità degli articoli che si occupano del fenomeno, giunge alla conclusione che “nessun singolo suicidio in Russia o in Asia Centrale è stato definitivamente collegato a Blue Whale” dopo aver contattato i parenti delle vittime e non aver trovato sempre corrispondenza con quanto riportato dai media.

A seguito del servizio de Le Iene in Italia sembra nascere una psicosi intorno a questo presunto gioco del suicidio e nei giornali si parla di numerosi casi tutti riconducibili alla Blue Whale, ma le perplessità intorno al fenomeno sono sempre maggiori. Si sono susseguite operazioni di fact-checking che dimostrano come il caso sia stato gonfiato o mal ricostruito; con l’andare del tempo non parlando più di Blue Whale vengono meno anche i casi, dimostrando così come non si trattasse di un fenomeno reale quanto piuttosto di un fenomeno indotto dal clamore mediatico, come sostiene il giornalista Andrea Angiolino.

Ciclicamente, dopo l’esplosione mediatica della Blue Whale, sui giornali sono comparse diverse storie di challenge, una delle più note, che ha avuto un percorso molto simile alla Blue Whale, è stata la Momo Challenge nel 2018. Nell’ultimo periodo il tema delle sfide online è tornato alla ribalta nei media italiani a seguito dell’incidente automobilistico avvenuto a Casal Palocco, Roma, il 14 giugno scorso quando un Suv che stava viaggiando a forte velocità, con a bordo i componenti del gruppo di youtuber TheBorderline, si è scontrato con un’auto provocando la morte di un bambino di cinque anni.

Il gruppo in questione produceva (dopo l’incidente i ragazzi hanno deciso di interrompere l’attività) video e contenuti online rifacendosi al modello di MrBeast, pseudonimo di Jimmy Donaldson, detentore del secondo canale YouTube con più iscritti al mondo. Donaldson si cimenta in sfide particolari (ad esempio non mangiare cibi solidi per 30 giorni o rimanere sepolto vivo in una bara per 50 ore) senza però proporre un modello di sfida o invitando più o meno velatamente gli utenti a emularlo; lo scopo di MrBeast è infatti avere entrate monetarie, dato che questi video sono finanziati da sponsor importanti e che da ogni visualizzazione lo youtuber ha un rientro economico. Parimenti i TheBorderline producevano video di sfide – ad esempio vivere 50 ore all’interno di un’auto – e ciò che ricercavano non era che il pubblico si cimentasse nella medesima impresa, quanto più che il pubblico visualizzasse il video facendo così guadagnare i componenti del gruppo.

Nonostante sia indubbio che le azioni degli youtuber in questione siano inevitabilmente pericolose, sembra però il rovescio della medaglia, dato che è l’imperativo di guadagnare il più possibile muovere gli youtuber, ciò fa riaffiorare alla mente ciò che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1973: «la nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane».

Intorno alle challenge online, dunque, si muovono due criticità: la prima è data dal racconto che ne viene fatto, con i media tradizionali che tendono a cavalcare le paure dei genitori dei giovani fruitori del web; la seconda è data dal consumismo sfrenato che guida le azioni di chi i prodotti di intrattenimento li produce, compiendo azioni sempre più scellerate per avere un click e dunque un ritorno economico sempre più alto. E la soluzione, a entrambe, sembra essere un ripensamento della società e del modello economico a cui la società stessa si piega. Qualcosa ben più faticoso di un click.