Sono tantissime le donne che lavorano negli stabilimenti industriali al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, dove subiscono discriminazioni
Ci sono luoghi in cui il legame tra capitalismo, imperialismo, sfruttamento del lavoro e disuguaglianze di genere si fa ancora più stretto. Tra questi ci sono le maquiladoras (o maquila), stabilimenti industriali controllati da Paesi stranieri che operano in regime di duty free, in cui vengono assemblati o lavorati componenti che vengono, poi, esportati all’estero. “Maquila” o “maquiladoras” è il termine gergale diffuso in America Latina per identificare le EPZ, zone industriali di esportazione (Export Processing Zones) che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha definito “zone industriali con incentivi speciali creati per attirare investitori stranieri, in cui i materiali importati subiscono un certo grado di trasformazione prima di essere (ri)esportati nuovamente”.Tra le EPZci sonole zone di libero scambio, le zone economiche speciali, i magazzini doganali, i porti franchi e le maquiladoras, appunto. Si trovano in molti Paesi, dalla Cina al Vietnam, dalle Filippine allo Sri Lanka, dall’America Centrale al Messico. Proprio qui, al confine con gli Stati Uniti, fin dalla metà degli anni Sessanta c’è stata una crescita esponenziale di maquiladoras, i cui prodotti sono rivolti a mercati esteri, soprattutto a quello statunitense. Elettrodomestici, apparecchiature elettroniche, prodotti tessili e abbigliamento, mobili, componenti per l’industria automobilistica: queste le merci prodotte e lavorate nelle maquiladoras, alcune delle quali in subappalto. Dietro c’è una corsa al ribasso fatto di sfruttamento della manodopera a basso costo, salari bassissimi, rischi per la salute dei lavoratori e delle lavoratrici e discriminazioni di genere.
Ma andiamo con ordine. Nonostante ne fossero già state fondate in precedenza, è dal 1965 che le maquiladoras aumentano in seguito al Border Industrialization Program (BIP), volto ad attirare investimenti stranieri e creare lavoro al confine settentrionale. Il BIP ha permesso di ridurre i dazi sulle materie prime e le attrezzature. Nel 1994 entra in vigore il NAFTA (North American Free Trade Agreement o Accordo nordamericano per il libero scambio),un trattato di libero scambio stipulatotra Messico, Stati Uniti e Canada che aveva come obiettivo la rimozione delle barriere al commercio tra i tre Paesi membri. L’Accordo nordamericano per il libero scambio ha portato all’eliminazione dei dazi doganali su quasi tutti i prodotti e alla rimozione delle restrizioni su altri prodotti come quelli tessili, agricoli, componenti per auto. Nel luglio 2020 l’Accordo è stato sostituito dall’USMCA (Accordo Stati Uniti-Messico-Canada).È in questo contesto che gli stabilimenti industriali prosperano e le maquiladoras diventano parte centrale dell’economia messicana.
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Secondo un rapporto di Solidar Foundation del 2020, nelle maquiladoras in America Centrale lavorano circa 400mila lavoratori, soprattutto donne, che rappresentano dal 60% all’80% della forza lavoro. La maggior parte delle lavoratrici, si legge nel report, ha tra i 15 e i 35 anni e non ha avuto possibilità di proseguire gli studi, molte hanno figli (tante sono le madri single) e in alcuni casi si sono trasferite dalle zone rurali. Proprio la povertà è uno dei motivi che spinge le donne a lavorare nelle maquiladoras. In queste fabbriche, tuttavia, i salari sono molto bassi (e le donne in quanto manodopera “costano” di meno), senza contare che non sempre vengono applicate le tutele sanitarie. Secondo il rapporto Solidar molti lavoratori hanno raccontato che spesso gli ambienti di lavoro non sono salutari (mancanza di ventilazione, caldo, polvere, mancanza di dispositivi di sicurezza), l’orario lavorativo è eccessivo, i benefit in caso di malattia sono inadeguati se non proprio inesistenti, la sindacalizzazione è limitata e spesso i leader sindacali vengono perseguitati o infastiditi.
Lavorare in queste condizioni ha, ovviamente, delle pesanti ricadute sulla salute psicofisica. Spesso, però, questo lavoro è l’unica opzione disponibile ed è difficile sottrarsi. Soprattutto quando si è donne. Soprattutto quando per la prima volta si ha la possibilità di lavorare. La presenza delle donne nelle fabbriche, però, nella cultura maschilista viene vista come un’interferenza, un’usurpazione dello spazio pubblico, da sempre appannaggio maschile.
Ma torniamo al Messico. Già nel 1996 un rapporto di Human Rights Watch intitolato No Guarantees: Sex Discrimination in Mexico’s Maquiladora Sector, denunciava le discriminazioni nei confronti delle donne. Alcune maquiladoras, si legge nel rapporto, richiedevano alle lavoratrici di sottoporsi al test di gravidanza e, nel caso fossero rimaste incinte, venivano licenziate oppure venivano assegnati loro lavori più gravosi. HRW sottolineava come la discriminazione di genere fosse non solo una violazione del diritto federale messicano, ma anche del diritto internazionale. Sembra, però, che queste azioni siano continuate, come si legge nell’articolo A Tour of Tijuana’s Maquiladoras pubblicato sul San Diego Free Press nel 2014.

Alle maquiladoras in qualche modo è collegato anche il numero agghiacciante di femminicidi registrati a Ciudad Juárez, città di oltre un milione di abitanti nello Stato di Chihuahua, dove questi stabilimenti proliferano. E dove molte persone arrivano con la speranza di rimanervi momentaneamente per poi andare negli Stati Uniti, oltre il muro, ma dove poi restano perché trovano lavoro nelle maquilas. Ciudad Juárez è stata fondata con il nome El Paso del Norte (Il Passo del Nord) perché si trova di fronte alla città texana di El Paso: a separarle il Rio Grande, il fiume che segna il confine tra gli States e il Messico. Secondo alcuni dati, riportati anche da El País México, a Juárez sono state uccise 2.300 donne. Moltissime delle donne rapite, torturate e uccise erano lavoratrici delle maquiladoras. I loro corpi mutilati sono stati ritrovati nel deserto, nei terreni. Molte di loro non sono mai state ritrovate e risultano ancora scomparse. “Desaparecidas”.
È proprio in relazione a quanto accade nella città che nel 2004 l’antropologa messicana Marcela Lagarde amplia il concetto di femminicidio (dallo spagnolo “feminicidio”) facendo riferimento non solo al delitto in sé ma a tutte quelle azioni volte all’annientamento fisico, psicologico ed economico delle donne, che“possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”. Si tratta di un’estensione del concetto di femmicidio (dall’inglese “femicide”) introdotto nel 1992 dalla sociologa Diana Russell e dall’attivista Jill Radford che per prime connotano politicamenteil termine, andando al di là del significato di “omicidio di donne” e considerandone la storia e il movente misogino: omicidio di donna in quanto donna.
Sono state fatte molte ipotesi sui femminicidi compiuti a Ciudad Juárez e, secondo una di queste, ci sarebbero di mezzo il narcotraffico e la criminalità organizzata. Altri casi, però, sarebbero slegati dal traffico di droga. Molti, inoltre, hanno fatto notare anche la negligenza e la corruzione delle autorità.

Nel 2009 l’artista messicana Elina Chauvet ha creato l’installazione Zapatos Rojos (“Scarpe rosse”)proprio per denunciarela violenza sulle donne e i femminicidi aCiudad Juárez. Tra le vittime di femminicidio anche sua sorella, uccisa per mano del marito. Le scarpe rosse sono arrivate in tantissimi Paesi fino a diventare il simbolo della lotta alla violenza di genere, anche se spesso si dimentica la loro origine. Le donne, le madri delle vittime, i movimenti femministi sono scesi in piazza e hanno protestato al grido di «Ni una más», «Non una in più»,espressione attribuita alla poeta e attivista Susana Chávez, che proprio a Ciudad Juárez era nata e proprio nella città ha trovato la morte, uccisa da tre adolescenti di 17 anni appartenenti alla banda Los Aztecas.
Certo non bisogna cadere nello stereotipo del “Messico Paese pericoloso”, vista la situazione nelle potenze occidentali: la cultura patriarcale è ovunque. In tutto questo il volto celato delle maquiladoras, coperto con un velo di finta emancipazione femminile, è ancora lì. In bella vista.
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