Il testamento politico del Cavaliere è chiaro: nessun erede ma la stessa passione per il progetto che, assurto a religione, vuole trasformare gli azzurri nei “santi laici della libertà e del benessere”
«Loquela fluviale, sorrisi da caimano, gesto sovrabbondante, effetti ilari»: in un editoriale di Repubblica Franco Cordero nel 2002 metteva a fuoco l’istrionico protagonista degli ultimi 30 anni della politica italiana, benedetto da una osannazione senza precedenti e condannato – metaforicamente, s’intende – ad un’opposizione fervida e di rara ostinazione. Sono circa le 9.30 di un lunedì mattina di giugno quando Silvio Berlusconi spira l’ultimo respiro, affannato da un male incurabile che ne perfeziona il martirio e rimanda il giudizio, mai esaustivo nelle aule di tribunale, ad un magistrato davvero terzo. Che cosa resta a noi che contempliamo orfani un lutto difficile da elaborare al netto dei soliti, facili impeti partigiani?
Nel momento in cui scriviamo, il testamento del Cavaliere non è stato ancora aperto. Ferma la certezza sui due terzi dei suoi beni ai figli, rimangono gli interrogativi sulla ripartizione del suo patrimonio privato, appena 3,6 miliardi di euro. Poco importa. L’eredità storica e politica di Berlusconi, patrimonio immateriale e inestimabile, invece, sarà di tutti perché non sarà di nessuno. Non può spettare di diritto a un erede, non può essere tramandato a un delfino, non si passa come una fiaccola olimpica qualsiasi. Non ci sono candidati, pupilli o lasciti genetici capaci di replicare ciò che è stato. Forse, però, non è finita qui. Se è vero che la morte non lava via le colpe, specialmente quelle più ombrose (al lettore il piacere di supporre quali), è altrettanto vero che il seme gettato 29 anni fa non ha ancora finito di germogliare. Innanzitutto perché il terreno è fertile: il mondo dell’impresa non rinuncerà a un suo spazio politico e le istituzioni si piegano sempre più al personalismo, sublimazione ormai necessaria di ogni leadership carismatica degna di essere ritenuta tale. Non sarà Berlusconi, domani, a farsi interprete dei valori liberali e dell’antagonismo alla sinistra, e forse cambierà anche la casa che finora ha ospitato i moderati di centrodestra. Rimangono però le battaglie politiche, un programma sommario e un sistema di porte scorrevoli fra i cda aziendali e il Parlamento, ma anche la propaganda indiretta, cifrata dentro un palinsesto televisivo, il mondo del calcio come podio di visibilità mediatica, lo spirito imprenditoriale come misura della grandezza politica. «L’Italia è il Paese che amo» e mi occuperò della cosa pubblica proprio come curo i miei affari.
«Forza Italia per noi è come una religione laica, la religione della libertà di cui parlava Benedetto Croce». Così il caimano, la bocca asciutta dopo l’ennesimo ricovero e la voce commossa, in occasione della convention del Partito ospitata a Napoli il 5 e 6 maggio 2023 affidava ai suoi azzurri le ultime volontà: un testamento politico che riguarda non un diritto di successione ma un dovere morale, anzi religioso, di prosecuzione e perseguimento della “follia non priva di saggezza” iniziata nel gennaio del 1994. Il paragone col filosofo napoletano d’adozione è ardito, ma non insensato – forse l’errore più grande di chi ha costruito la sua carriera sull’antiberlusconismo è stato proprio quello di sottovalutare l’intelligenza politica del magnate. Secondo Croce la libertà è la categoria fondamentale della storia, ma “non si costruisce nel vuoto ma nell’eterna lotta con il suo disvalore”, spiega il docente di Filosofia Contemporanea all’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa Ernesto Paolozzi. La stessa discesa in campo di Berlusconi dopotutto parte proprio dalla costruzione di un’alternativa, seguendo alla lettera il manuale del perfetto populista che proprio nella contrapposizione dicotomica con un nemico diverso traccia la sua identità.
«Non sarebbe il tempo di smettere di aver fiducia nelle opposizioni e distinzioni dei partiti politici, tanto più che l’esperienza politica ci mostra che il partito che governa o non governa è sempre uno solo e ha il consenso di tutti gli altri, che fanno le finte di opporsi? Non sarebbe meglio contare sugli uomini saggi, lavoratori e consapevoli del loro dovere verso la patria?» scriveva sempre Croce nel 1912 a Gaetano Salvemini. Dal filosofo della libertà Berlusconi avrebbe ripreso quindi, oltre che ad un innato sentimento anticomunista, anche i prodromi di un’antipolitica che rifiuta il professionismo in chi governa. È in questo terreno che sbocciava il germoglio di un nuovo schieramento che raccogliesse il testimone del Pentapartito frantumato da Tangentopoli e imbastisse un nuovo approdo per il ceto medio orfano della Democrazia Cristiana. Così come Berlusconi era personaggio prima ancora che persona, prima ancora di essere un Popolo quello delle Libertà è un pubblico: i confini del target di riferimento del marketing (anche) politico di Fininvest li scandisce con chiarezza lo stesso Cavaliere nel congresso di maggio. Forza Italia, ricorda, nacque per rivolgersi all’audience delle sue reti, che per prime assicurarono “un film ogni giorno alle 10.30 per le signore che stanno a casa a spolverare i mobili e a preparare il pranzo per i figli che tornano a scuola e uno spettacolo dopo cena per le famiglie che si godono la tv insieme a casa”. La “nuova” politica di Berlusconi prendeva forma su queste ceneri, con l’obiettivo di andare incontro a una platea rinnovata, tradita dai vecchi partiti e lacerata da due decenni di estremismi violenti. Come ha scritto El Pais in occasione della sua morte in un articolo titolato Murió el actor, sigue la farsa, “Silvio Berlusconi non ha mai ingannato nessuno. Gli italiani – che più che nascere debuttano in un palcoscenico antichissimo e stupendo – si sono subito accorti che quest’uomo con il tacco interno nelle scarpe, l’eterna abbronzatura e l’aria da galantuomo d’altri tempi non era un politico, ma un volenteroso attore impegnato nell’immane sfida di rappresentare davanti a tutti un pezzetto dell’anima dell’Italia”. Lo dice ancora meglio Pietrangelo Buttafuoco nel suo panegirico Beato lui dedicato al “più mozartiano degli uomini politici”: «chiunque alzandosi al mattino, guardandosi allo specchio, vede uno stronzo. Berlusconi invece vede Berlusconi e fa vedere a tutti noi – a noi che siamo tutti stronzi – Berlusconi».
Così come Milano 2 negli anni ‘70 fu costruita per “dare alle persone che ci abitano la sensazione di essere in vacanza” (lo spiegava l’architetto Enrico Hoffer), salvo poi somigliare a un soggiorno invernale in una meta estiva rarefatta e assuefatta al vuoto, allo stesso modo il sogno politico del Cavaliere si compie ma ci lascia a bocca asciutta. 30 anni dopo il Paese è ancora più sfiduciato dalla classe politica, bipolare, a volte illiberale, impantanato in una tassazione sempre troppo alta e scandito da processi mediatici e non. «Individualismo disperato e ottimismo patinato» (Antonio Scurati) sono solo alcuni dei lasciti del berlusconismo. Dunque, che cosa resta a noi che contempliamo orfani un lutto difficile da elaborare al netto dei soliti, facili impeti partigiani? Tre cose, su tutto, non potremo mai più cancellare dalla storia e dunque dal futuro della nostra Italia. In un agone di larghe maggioranze bipartisan la componente centrista esercita ancora una trazione determinante. Quando il consenso politico diventa una fede, i dogmi superano i fatti per importanza e a rimetterci sono tanto i credenti quanto gli atei. Il personalismo è irripetibile ma non infruttuoso: tracciata la strada, tocca alla società trasformare, una volta per tutte, il culto della personalità in maturità politica.