In 34 anni di attività, l’organizzazione è diventata un riferimento per chi ama il cibo sano e sostenibile, in tutto il mondo. E ora, è di fronte alla nuova frontiera dell’alimentazione

Negli ultimi anni sempre più persone si stanno interessando all’importanza del cibo sano e sostenibile, non solo per il proprio benessere ma anche per quello dell’ambiente. In questo contesto, Slow Food si è affermato come un movimento culturale ed economico internazionale che promuove la cultura del cibo locale e di qualità, il rispetto della biodiversità, la valorizzazione dei produttori locali e l’attenzione ai temi della sostenibilità.

Ma cos’è esattamente Slow Food e come è nato? Slow Food è un’organizzazione internazionale no-profit fondata nel 1989 dall’avvocato e giornalista Carlo Petrini a Bra, in Piemonte, con l’obiettivo di difendere e promuovere il patrimonio gastronomico e culturale delle comunità locali, in contrasto con l’omologazione del gusto e l’omologazione dei prodotti alimentari a livello globale. Il nome Slow Food nasce come risposta al fast food, un modello alimentare che propone cibi veloci, poco sani e poco sostenibili. Infatti, il primo Burghy (la catena di fast food tutta italiana fondata da GS, nel ‘96 acquisita da McDonald’s) aprì a Milano nel 1981.

Il movimento Slow Food si propone di creare una nuova cultura alimentare che si basi sulla qualità, la sostenibilità e il rispetto dell’ambiente, attraverso l’educazione, la formazione e la sensibilizzazione dei consumatori, promuovendo il concetto di “buono, pulito e giusto”.

I presidi Slow Food sono nati con l’obiettivo di proteggere la biodiversità alimentare e la cultura gastronomica di un territorio, e oggi ne esistono più di 500 in 160 Paesi. L’organizzazione è strutturata in modo decentralizzato, con numerosi comitati locali e nazionali, che si occupano di promuovere e diffondere la cultura del cibo locale e di qualità nei rispettivi territori. Inoltre Slow Food organizza eventi, laboratori, degustazioni e attività didattiche. Ha un forte impegno nella sostenibilità ambientale, promuove infatti l’agricoltura biologica e l’agricoltura biodinamica, che rispettano l’ambiente e la salute degli animali, e lotta contro lo spreco alimentare. L’organizzazione ha anche lanciato diverse iniziative e progetti a livello nazionale, come ad esempio la campagna Salviamo le api, volta alla tutela degli insetti impollinatori, o il progetto Orto in condotta, che promuove la coltivazione di orti scolastici.

Recentemente Slow Food ha preso posizione nei confronti della cosiddetta “carne sintetica”, che non sarebbe la soluzione giusta per eliminare gli allevamenti intensivi, anche se salva la questione etica, evitando di uccidere gli animali. L’organizzazione ha diffuso un vero e proprio documento dove dettaglia le motivazioni. Il documento parte dal fatto che «dal 1960 a oggi la produzione di carne è aumentata di cinque volte e, secondo la Fao, potrebbe raddoppiare entro il 2050», riportando che si producono «45 milioni di tonnellate nel 1950, 30 milioni nel 2018 e 500 milioni nel 2050».

I consumi in Italia sono intorno ai 79 chilogrammi annui a testa: meno di Stati Uniti, Australia, Spagna e Germania, ma quasi il doppio della media mondiale, che nel 2014 era stimata in 43 chilogrammi. «Il problema di un’eccessiva produzione di carne non si risolve passando dagli allevamenti intensivi ai laboratori – si legge nel documento – ma si affronta analizzando con onestà il modello che ha originato questa distorsione e intervenendo per modificarlo radicalmente». Passare dagli allevamenti intensivi alla “carne sintetica” per Slow Food è come «passare dalla padella alla brace». Perché il cibo è cultura, oltre che carburante per l’organismo, perché la produzione di carne in laboratorio richiede grandi quantità di energia.

I principali soggetti che puntano ai laboratori sono inoltre gli stessi che dominano la filiera della carne, con le stesse logiche di guadagno e monopolio. «Soddisfare l’attuale domanda globale di carne – sostiene Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italiaha richiesto uno stravolgimento dei secolari metodi di allevamento, dando vita al cosiddetto approccio industriale o intensivo. Un metodo che ha sì assicurato carne (quasi) per tutti, ma a condizioni ingiuste, inaccettabili e insostenibili. Secondo Slow Food, per frenare questa deriva basterebbe ridurre il consumo di carne nei Paesi del Nord del mondo, dando concretezza alla auspicata transizione proteica, piuttosto che promuovere la carne coltivata».

Il punto di vista è da cambiare: «è necessario ricercare una soluzione di più ampio respiro, che metta in discussione le abitudini di consumo, invece di cercare la risposta soltanto nella tecnologia, nei brevetti industriali e nei laboratori» afferma Nappini.

Una precisazione poi, a tutela dei consumatori. «La ricerca – si legge nel documento – deve essere libera. La carne coltivata però non può essere definita in etichetta “carne”, i nomi dei prodotti sostitutivi non devono alludere alle loro alternative naturali, ad esempio “salame”, “latte”, “bistecca”, “hamburger”, “formaggio” per non generare confusione».

Ma “think locally” è veramente una soluzione ai problemi globali della sostenibilità e dell’alimentazione? O è figlia di una mentalità che era “rivoluzionaria” sì, ma negli anni ‘90? Gli squilibri mondiali e la saturazione della disponibilità di risorse ci impongono di guardare ad altri modelli alimentari (come gli insetti e i derivati), inclusi quelli proposti dalla scienza, sicuramente migliorabili ma non da rifiutaretout court. Anche se non si trovano dal contadino o sull’Artusi.