Il Novecento è stato la culla della moda come la conosciamo oggi, un mondo di arte ma anche di passioni e delitti
Quando camminiamo per le strade, quante volte alziamo lo sguardo e la nostra immagine riflessa si veste, specchiandosi nei contorni di una vetrina, dentro un abito o un completo impettito in un manichino in esposizione? Per un attimo, possiamo immaginare che un brand che non potremmo mai permetterci di indossare ci sia stato cucito addosso, nell’istante in cui vi abbiamo posato gli occhi guardando dentro al vetro. Un’azione che sembra nulla, ma che rappresenta esattamente l’essenza stessa del mondo della moda: un’illusione reale, fatta di materiali che scorrono sotto le dita e di miliardi di investimenti, ma anche di volti e di carne, di delitti e di passioni umane che si imprimono nei velluti.
È il 1855 quando Charles Worth, sarto di origine inglese trapiantato nella Ville Lumière con poche sterline in tasca, firma un abito: un gesto rivoluzionario perché i couturiers, fino ad allora, non firmavano le creazioni; gli abiti erano proprietà esclusiva del cliente, che ne chiedeva modifiche a proprio capriccio. Con Worth invece è lo “stilista” che determina il gusto degli abiti che poi le sue clienti indosseranno; un passaggio fondamentale che si concretizza solo quando Worth riesce a vestire i reali francesi (sua cliente affezionata fu l’imperatrice Eugenia) decretando il gusto di una delle corti più importanti dell’Europa della Bella Epoca. Tuttavia la moda non nasce prima degli anni ‘20 del Novecento, quando la fine della Grande Guerra porta a un rinnovato desiderio di spensieratezza e divertimento: per la prima volta una tendenza non è più appannaggio di un solo ceto sociale alto o addirittura nobile.
Prima della Guerra Mondiale, le tendenze erano roba per ricchi e per uomini e donne di corte, circoscritte quindi a una cerchia decisamente ridotta; ora la moda invece diventa fenomeno di massa, anche grazie alla diffusione del cinema che propone sullo schermo argentato icone e modelli di stile da replicare e imitare. Sono gli anni dello sviluppo di un mostro sacro del mondo della moda, la stilista Coco Chanel. Il suo stile sposa i tempi e le necessità. Perché lei, nata in un ospizio dei poveri figlia di venditore ambulante, sa bene che un vestito deve essere sì qualcosa che ti fa stare bene con te stessa, ma anche pratico, adatto ad essere portato tutti i giorni. Il suo più grande pregio è proprio saper interpretare le necessità delle persone: i suoi colori non sono sgargianti ma semplici, portabili (dominano il nero, il suo colore preferito, ma anche il bianco, il beige, il blu); i suoi tagli sono semplici, classici, ma allo stesso tempo ben studiati per mettere in risalto la figura femminile. È una donna che aderisce all’epoca in cui vive; a volte, troppo. Chanel infatti non nascose mai il suo antisemitismo e anti sindacalismo: per ripicca contro i lavoratori che avevano chiesto salari e turni migliori chiude temporaneamente bottega per avere una scusa per licenziare i sindacalisti; e si avvantaggerà non poco della collaborazione nazista per espropriare i suoi collaboratori e rivali ebrei e averli fuori dalla propria strada nella corsa al successo. Se nelle relazioni è spesso vittima, sul lavoro è cinica e crudele. Eppure è ancora oggi un’icona di stile, complice anche il suo indimenticabile profumo, Chanel n.5, che fece perdere la testa a Marilyn Monroe segnando l’ingresso di Mademoisellenel pantheon dell’haute couture. Non solo: è nella sua maison che, 12 anni dopo la sua morte, farà il suo ingresso un altro genio rivoluzionario, Karl Lagerfeld, destinato a imprimere un marchio indelebile nella storia dello Stile Chanel.
Ma questi non sono solo gli anni della grande moda francese: sono anche gli anni di altre due “quote rosa” tra le maison di haute couture, che segnano l’ingresso dello stile italiano nel mondo delle tendenze: da una parte l’imprenditrice Luisa Spagnoli; dall’altra le sorelle Zoe, Micol e Giovanna Fontana. Esempi non solo di sartoria di alta classe, dal gusto classico e dalla vestibilità adatta a tutte, ma anche di imprenditoria e coraggio femminile in un’epoca, quella della guerra e del secondo Dopoguerra, dove la forma mentis italiana aveva ben chiaro quale fosse il ruolo delle donne: in cucina, a badare ai figli e a obbedire in silenzio. Invece queste quattro donne, una figlia di un umile pescatore e nata a Perugia, le altre tre figlie di sarti parmensi, provano all’Italia bigotta degli anni ‘30, 40 e ‘50 che una donna può essere una imprenditrice come gli uomini, meglio degli uomini. Ancora sono lontane le passerelle stravaganti a cui siamo abituati oggi: la parola d’ordine sono le linee geometriche, classiche, i colori semplici e pastello. Eppure già Christian Dior osa inventando collezioni dalle linee già azzardate e innovative (come le silhouette “a freccia” o “a tulipano”) e introducendo l’uso di vendere alle clienti, insieme ai vestiti, anche tutta una linea di accessori immancabili: borse, profumo, gioielli, fino allo smalto per unghie. Completamente opposto è invece lo stile dello spagnolo Cristóbal Balenciaga, che “libera” la vita della donna abolendo il corsetto e puntando tutto sulle gonne voluminose, sui panneggi dei tessuti (che ricordano i dipinti di Velasquez) e su capi ampi che si dispiegano sul corpo femminile come un sipario sulla scena di un teatro. Un’attenzione per il corpo femminile e un desiderio di renderlo protagonista che influenzerà profondamente anche il lavoro di chi si formerà nel suo atelier: giganti come Oscar de la Renta (l’inventore del termine “fashion victim”) e Hubert de Givenchy (l’ideatore dell’abito a sacco, di quello a palloncino e di quello a bustino).
Poi arriva un terremoto: gli anni Sessanta. Gli anni dei “capelloni”, delle contestazioni studentesche, della voglia di rottura di una generazione. E la moda inizia quel cammino che la porterà alla stravaganza, anche agli eccessi. Grazie soprattutto al genio di Yves Saint-Laurent che introduce enormi elementi di innovazione. Tra questi la continua ispirazione di Saint-Laurent a grandi classici della pittura, assorbendo altre discipline artistiche e condensandole in nuance e giochi di forme arditi e peculiari: sua ad esempio la collezione ispirata a Mondrian dell’Autunno Inverno 1965/1966. Una linea che farà scandalo (come la sua vita privata e la relazione omosessuale con il magnate della moda Pierre Bergé) ma che rispecchia in pieno l’epoca dello stilista: un’epoca di benessere ma anche di tensioni, di giovani in piazza, di operai in sciopero, di guerre e invasioni che mobilitano la società civile. Umano e moda sono due facce della stessa medaglia: la seconda riprende i concetti, gli ideali e l’estetica di un’epoca per farla indossare a chi la vive. Anche l’omosessualità è un tema fondamentale di quegli anni: i Moti di Stonewall del 1969 segnano nel mondo una nuova visione dell’orientamento sessuale, la richiesta di una maggiore libertà di amare. D’altronde l’omosessualità è ampiamente diffusa nelle maison dell’alta moda: è omosessuale Balenciaga, seppure non dichiaratamente; lo è Saint Laurent e lo sono altri due déi del pantheon dell’alta moda: Valentino e Versace, entrambi italiani. La rottura con la classicità è qui totale: Valentino Garavani osa con colori sgargianti (come il rosso che prende il suo nome), le nuance quasi accecanti vibrano negli occhi di chi ammira i vestiti al punto da squarciare le forme placide; Gianni Versace stravolge lo stile della Grecia Antica, mescola simboli e tagli antichi a tessuti psichedelici e coloratissimi, unisce il barocco alla classicità. La moda è in questi anni gioco, sperimentazione, confusione, eccesso e tinte forti. Un po’ come la Storia che è chiamata a vestire: in Italia è l’epoca degli anni di piombo, dei rapimenti delle BR e dello stragismo nero; nel mondo sono gli anni del Vietnam, delle battaglie civili, del comunismo e del suo declino. La generazione di idealisti degli anni ‘60 lascia il posto a una generazione arrabbiata, di grandi passioni e grandi eccessi. Gianni Versace ne è, in un certo senso, la vittima esemplare: viene ucciso a Miami da Andrew Cunanan, serial killer tossicodipendente ed omosessuale.
Non è l’unico delitto che tinge di rosso sangue il mondo delle passerelle. Famigerato è anche l’omicidio che si consuma nella maison Gucci, reso popolare dalla recente pellicola in cui Lady Gaga interpreta la presunta mandante del delitto, Patrizia Reggiani. Una casa di moda e di famiglia, fondata negli anni Venti dal visionario Guccio Gucci che in epoca di ristrettezze sperimenta vestiti con fibra di canapa e iuta, ma anche un covo di vipere che diventa, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, il simbolo del lusso e della decadenza insieme. Sangue a parte, è una delle maison più innovative e di rottura della Storia della moda contemporanea (loro i primi a portare la pelle nell’abbigliamento dell’haute couture); tra le prime, negli anni Duemila, a lanciare innovative linee di abbigliamento androgino e genderfluid. Sempre negli anni Ottanta, gli anni del punk, del Muro di Berlino e della fine di un’epoca di polarizzazione sociale (ma anche di certezze ideologiche), fa il suo trionfale ingresso nel mondo della moda un’altra donna incredibile: Vivienne Westwood, indiscussa regina della moda sperimentale punk che gioca con spille da balia, borchie, stampe oltraggiose e tessuti animalier, recentemente scomparsa.
E ora? Ora i protagonisti dell’arte più reale, e più illusoria di tutti, gradualmente escono di scena: chi morto, chi caduto in disgrazia, chi diventato parte di gruppi sempre più grandi – e più anonimi. Le passerelle sembrano irrimediabilmente fuori dalla portata del mondo reale, mentre la fast fashion è la pallida copia di un mondo irraggiungibile, fatto di passione, d’arte e di illusione.