Forte del suo 7,7%, il Terzo Polo entra nell’agone della politica italiana a gamba tesa. Un protagonista bicefalo che fa tesoro dell’ingegno politico di Renzi ma che ha trovato una nuova linfa nell’Azione di Calenda

Corteggiato dalla destra per un appoggio esterno appena strumentale, snobbato dalla sinistra perché “traditore” del patto progressista contro “l’avanzata delle destre”: la politica italiana accoglie al tavolo il Terzo Polo che, dopo il 25 settembre 2022, si ritaglia uno spazio tutto suo dal quale puntualmente smentisce i detrattori impegnati nella caccia al democristiano. Spesso accusato di troppa liquidità politica, è invece importante fissare il perimetro di questo Terzo Polo, guardando al motore propulsore del rinnovamento del suo pilastro renziano: Carlo Calenda.

Come è bene ricordare risalendo il fiume in piena della politica italiana, il seme del Terzo Polo germoglia dalle ceneri del primo Governo Conte che cade per rinnovarsi il look, rimpiazzando la non più politicamente sostenibile alleanza con Matteo Salvini con quella con il Pd. Un apparentamento che come una goccia fa traboccare il vaso, per Matteo Renzi che saluta “7 anni di fuoco amico” perché “i nostri sogni non possono essere tutti i giorni oggetto di litigi interni”, e Calenda che vede nell’accordo giallorosso il punto di non ritorno e lancia la fondazione di un “grande Fronte repubblicano e democratico capace di ricacciare i populisti e sovranisti ai margini del sistema politico”. È così che nasce il Terzo Polo: i due esuli superano la presunta incompatibilità delle loro forti personalità e si uniscono in un patto politico che non convinceva molti ma che porta a casa un risultato accolto quasi unanimemente come un successo: il cartello Italia Viva-Azione alle elezioni politiche di settembre raccoglie infatti il 7,7%.

A non convincere gli astanti disincantati in un primo momento è soprattutto l’impianto fortemente personalizzato dei due partiti. Se infatti nella fase d’esordio la sovrapposizione fra il gruppo e i due volti noti serve a catalizzare consensi e interesse, e dunque premia la coalizione, la stessa natura centrista del Polo mette Renzi e Calenda davanti a un bivio: senza un salto di qualità che lasci emergere il potenziale del gruppo politico, forte di una robusta e condivisa base identitaria, è difficile pensare che il solo carisma personale dei suoi leader basti per far crescere il Terzo Polo come un attore compatto e affidabile nel tempo. Lo sostiene, ad esempio, il cattolico dem Giorgio Merlo secondo cui un centro che si proponga di essere “moderno, democratico e riformista” non può che attingere a una pluralità culturale, trasformandosi in un mosaico di identità moderate e con una visione comune che non azzeri le peculiarità. Un fronte ampio dai liberali ai cattolici, dagli europeisti agli ambientalisti, perché uno non esclude l’altro. Il tutto, senza che il Polo degeneri in quella che Edmondo Berselli definiva la “replica tardiva della vena compromissoria democristiana”. Una sfida per non-principianti che fa gola all’ambizione lungimirante tanto di Renzi quanto di Calenda: «porto il partito al 20% e ve lo lascio» promette il segretario di Azione.

Al netto di questa inevitabile frammentazione interna e mentre i solisti si aprono alla polifonia, due sono i fuochi che animano il Terzo Polo, una pragmatica e “artistica” incarnata da Calenda, l’altra, quella renziana, ben radicata nei palazzi e “ingegneristica”, come racconta il senatore di Iv Ivan Scalfarotto: «uno preferisce organizzare uffici studi con migliaia di documenti per elaborare proposte, con l’altro magari non si sa a che ora verrà convocata la riunione dei parlamentari, ma è capace di tirare fuori l’idea geniale che cambia una stagione politica». Le differenze di forma rispecchiano solo in parte quelle di principio. Italia Viva e Azione condividono innanzitutto la spinta per rilanciare un piano industriale in Italia, seguendo un percorso che Renzi e Calenda hanno iniziato insieme nel 2016 quando l’allora premier fiorentino lo nomina rappresentante permanente dell’Italia all’Unione europea prima e ministro dello Sviluppo economico poi. Un trampolino di lancio in politica per il “pariolino” (il nomignolo mediatico è inesatto, oltre che dispregiativo: «mai abitato lì, è un posto triste» replica lui ricordando la sua infanzia nel quartiere Prati di Roma), che gli consente di farsi promotore del piano Industria 4.0 per rilanciare la competitività delle imprese italiane e del Made in Italy. «Il Paese va rimontato a partire dalla scuola, dalla cultura, dalla formazione e dalla sanità» recita lo slogan di Azione che mette sinteticamente in calce lo spirito della Leopolda. Insomma, la vera domanda sembra essere un’altra e se la pone ancora Scalfarotto: «perché non ci siamo uniti prima o perché siamo stati divisi finora? Vi assicuro – afferma ricordando la sua esperienza da sottosegretario di Calenda nel Governo Renziche la pensano allo stesso modo», al netto delle differenze caratteriali.

Mentre sulla persona di Renzi, passato da sindaco di Firenze ad aspirante sindaco d’Italia, i riflettori sono accesi da decenni, è Calenda il “volto nuovo” del Polo, tanto che la faccia cui assegnano la campagna elettorale è proprio la sua, più politicamente vergine. Fin dalla sua prima apparizione davanti a una telecamera, a partire quindi dalla comparsa nello sceneggiato Cuore del 1984 diretto dal nonno Luigi Comencini in cui interpreta il piccolo Enrico Bottini, Calenda perfeziona una formazione più imprenditoriale che politica. Intraprendente e curioso, con una tessera della Federazione giovanile comunista italiana già alle spalle, Calenda entra in Ferrari da stagista non retribuito e ne esce dopo cinque anni come responsabile delle relazioni con clienti e istituzioni finanziarie, crescendo anche grazie alla benedizione dell’allora ad Luca Cordero di Montezemolo di cui diventerà anche assistente alla presidenza di Confindustria. Il mondo dell’impresa lo rapisce: «sono più affezionato al rosso della Ferrari che a quello del Pc» ironizza in tv, e pur rifiutando etichette si racconta come un liberalsocialista di orientamento progressista. «Nessuna maledizione ci condanna a dover scegliere fra i disastri dei populisti e quelli dei sovranisti – spiega nel Manifesto per l’Italia lanciato a gennaio. – Il Paese va rimontato a partire dalla scuola, dalla cultura, dalla formazione e dalla sanità. E queste riforme non sono di destra o di sinistra, sono solo necessarie». Un approccio ancora una volta più realistico che politico che in un grande centro può trovare ampi spazi di dibattito ma anche perdere di consistenza. Il confine fra la Terza via macroniana (è l’eurodeputato di Italia Viva Sandro Gozi a riferirsi al partito del presidente francese En Marche! come un modello da replicare) e un professionismo di ridotta visione politica è sottile e insidioso. «Per questo abbiamo bisogno di un grande Partito della Nazione che faccia proprio lo spirito repubblicano del Governo Draghiprosegue il Manifesto di Azione – e che attinga alla classe dirigente capace di gestire e amministrare a prescindere dalla storia delle singole personalità». Tanta competenza, una buona dose di pragmatismo e nessun colore politico aprioristico è la ricetta di Calenda per superare le dicotomie accusate di tenere in stallo il Paese. Un approccio che inneggia allo spirito di resurrezione dell’impresa italiana e che in effetti appare coerente a chi si è preso la briga di spulciare fra i finanziamenti ricevuti dal Polo per l’ultima campagna elettorale. Come nota anche Laura Loguercio su Pagellapolitica, balza innanzitutto all’occhio l’ottimo esito della raccolta fondi: a fine agosto la lista aveva raccolto 1,4 milioni di euro in donazioni, di cui 970mila da Azione e 435mila, la metà, da IV (per inquadrare rapidamente la cifra basti pensare che nello stesso periodo il Pd, non esattamente nato ieri, aveva raccolto 1,2 milioni). Scorrendo l’elenco dei sostenitori del Terzo Polo troviamo moltissimi imprenditori, dagli affezionati renziani di lungo corso come Davide Serra, fondatore del fondo di investimento britannico Algebris, e Daniele Ferrero, ad di Venchi, fino a Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli e presidente della compagnia aerea Neos Air. Ancora, credono nel progetto grandi nomi della moda come Renzo Rosso (fondatore di Diesel), Pier Luigi Loro Piana, ex proprietario dell’omonima casa di moda oggi del gruppo LVMH. Luciano Cimmino, presidente della Pianoforte Holding (Yamamay e Carpisa fra le controllate) e Patrizio Bertelli, ad di Prada.

Nel panorama italiano insomma, spiega ancora Calenda nel suo Manifesto, Azione si incasella come «un partito dotato di una solida cultura politica liberale, popolare e riformista, non ridotta ad un’etichetta – destra e sinistra – che oggi viene appiccicata a caso e indipendentemente dalle politiche realizzate». Anche se, in effetti, la politica è fatta di scelte e la neutralità ideologica del “buon senso” rischia di scadere nella tautologia, siamo ormai abituati a riconoscere ai partiti uno spazio di manovra pressoché infinito, che consente loro persino di ribaltare il principio del tertium non datur. Destra e sinistra sono infine superabili: è questo il messaggio messianico del Terzo Polo. Un approccio tutt’altro che nuovo, specialmente in Italia dove il calderone del “grande centro” ribolle incessantemente, e che qui troverebbe un nuovo agente catalitico. Lo confermano anche le stime sull’ultima tornata elettorale: secondo l’istituto Noto Sondaggi, il 37% dell’elettorato del Terzo Polo sarebbe formato da ex elettori del Pd e un altro 40% dei voti raccolti proverrebbe da chi nel 2019 aveva votato il centrodestra, sommando le sue tre componenti Lega, FdI e FI. Lungi dall’essere (l’ennesimo) fenomeno centrista passeggero e inconsistente, però, il Terzo Polo sembra destinato a imporsi nella politica italiana, anche grazie a un preciso inquadramento su alcuni principi e forse proprio in virtù della sua anima poliedrica. Allo stesso tempo, sbaglia chi vede in questa formazione bicefala un nuovo baluardo della Terza Via in Italia: troppo giovane, forse, per assumere una forte identificazione politica in tal senso.

La terzietà del gruppo si disvela invece in un senso più parlamentare che identitario: lo ha messo in chiaro proprio Calenda nelle primissime fasi del Governo Meloni, recandosi a Palazzo Chigi con un faldone di proposte discusse con la premier: l’estensione del piano Industria 4.0, il tetto al prezzo del gas, il Pnrr, la riformulazione del reddito di cittadinanza in Rei. «Ci sono cose su cui noi assolutamente non siamo d’accordo – spiega Calenda uscendo dalla sede dell’Esecutivo. – Ma su molte di queste cose abbiamo trovato apertura». Un cordiale scambio fra fazioni politiche distanti che si risolve, perlomeno nel breve termine, in un nulla di fatto e che però lancia un messaggio chiarissimo all’arco parlamentare. Da un lato, si prendono le distanze dall’opposizione di sinistra, intransigente sui suoi principi e disinteressata a un dialogo con la maggioranza. Dall’altra si fa sussultare la componente più moderata del Governo, Forza Italia, dando sfoggio del proprio peso numerico in Parlamento dove Azione e Italia Viva contano sull’appoggio di 9 senatori e 21 deputati. Numeri preziosi che, secondo gli osservatori più disincantati, Silvio Berlusconi compreso, hanno silenziosamente fatto sentire la propria forza sin dall’elezione del presidente del Senato Ignazio La Russa, indicato alla guida di Palazzo Madama da 115 senatori di cui, secondo un calcolo ipotetico per via dello scrutinio segreto ma concreto, 17 “esterni” rispetto alla maggioranza di centro destra.

Una manciata di idee riformiste, poche e ben chiare, principi moderati e tanto pragmatismo: è con questa ricetta che Azione punta a snellire il menù di Italia Viva, combinandosi insieme in un Polo cui va riconosciuto un primo, grande merito elettorale attivo e passivo. All’indomani del voto di settembre un’analisi Ixè ci indicava che la maggioranza dei giovani 18-34 (precisamente il 18%, quasi uno su cinque) ha scelto proprio il Terzo Polo alle urne. Guardando agli eletti, la coalizione di Renzi e Calenda si conferma quella con l’età più bassa al Senato oltre che quella con più donne elette in Parlamento (46,6%). E se anche fosse vero che lo sguardo dei più giovani non ha (ancora) il filtro del disincanto nel “grande centro”, sarebbe più miope ignorare la direzione in cui soffia il vento.