In Asia c’è un triangolo di violenza, ricchezza e dipendenza, creato anche dall’Occidente
Vaste pianure contornate da colline lasciano il passo alle sponde del Mekong, che scorre lento e limaccioso, come se gli uomini che lo attraversano su barche malconce di legno non disturbassero più di una fila di formiche in movimento su una pietra. Improvvisamente Buddha colorati di templi fluviali e costruzioni in cemento ancora da ultimare si confondono con la foresta che cresce lungo il corso d’acqua. Un mondo sospeso, dove ogni cosa è resa immobile da una nebbia sonnacchiosa, e dove si muove in realtà incessante e frenetico un brulicare di uomini e donne, visibili solo a pelo d’acqua dell’acquitrino criminale che esporta droga in tutto l’Oriente e oltre. È il Triangolo d’Oro, una geometria immaginaria che collega Laos, Thailandia e Myanmar lungo il corso del fiume.
Il nostro poligono del male si trova in una zona particolarmente critica del Sud Est Asiatico. Già la sua ubicazione suggerisce quanto sia stato e sia tuttora da debellare il narcotraffico: il Laos ha una storia di guerra civile e governo monopartitico, la Thailandia è saldamente controllata da un sodalizio repressivo tra l’esercito e la monarchia (basti pensare che in questo Paese il reato di lesa maestà è punito con fino a 15 anni di carcere) mentre il Myanmar è dilaniato da una sanguinosa repressione della giunta militare guidata dal generale Min Aung Hlaing, che nel 2021 ha destituito il governo di Aung San suu Kyi e dato il via a una stagione di violenza e pulizia etnica. In una regione di grande instabilità, è facile che i confini diventino impraticabili per i profughi in fuga, ma molto permeabili per i traffici illeciti.
Nel mondo ci sono diversi hub del narcotraffico, ma due in particolare hanno ricevuto l’aggettivo “d’oro” per via della ricchezza accumulabile con questi traffici: il “Triangolo d’oro”, appunto, e la “Mezzaluna d’oro” in cui domina incontrastato l’Afghanistan, insieme a Pakistan e Iran. «Una volta era molto più noto dell’Afghanistan – spiega Stefano Vecchia, giornalista freelance indipendente con una lunga esperienza sui fenomeni politici e criminali dell’Asia– poi anche per via delle vicende politiche di Kabul il Triangolo ha perduto in parte la sua centralità mediatica. In più per diversi decenni la produzione nel Triangolo d’Oro si è ridotta, anche per ragioni di tendenze: se nel ‘900 il core business di quest’area era l’oppio, per la produzione di eroina, i cambiamenti nei “trend” dei consumatori oggi incentivano la produzione e il commercio di droghe di sintesi chimica. Questo tipo di stupefacenti ha una qualità che all’oppio tradizionale manca: si possono produrre in grandi quantità in un laboratorio, mentre per l’oppio servono delle coltivazioni estese». Infatti negli ultimi tempi il fenomeno non riguarda più tanto l’oppio e i suoi derivati, come appunto l’eroina che era sintetizzata in proporzioni massicce in queste aree, ma piuttosto la produzione e lo smercio di metanfetamine. Non che le piantagioni di papaveri siano scomparse: si calcola che nel solo Myanmar 40 mila ettari siano impiegati per questa coltura. «Le due filiere aggirano ormai completamente quello che era il bacino d’utenza principale, cioè i gruppi etnici dell’area, per quanto riguarda la diffusione e l’utilizzo; mentre in parte controllano o facilitano ancora il transito locale». Va anche tenuto in considerazione che ad agevolare questo tipo di movimenti è anche la rete antropologica delle etnie del luogo: in un agglomerato di Stati i cui confini sono stati tracciati a penna su una mappa in epoca coloniale, spesso uno stesso gruppo etnico si trova al di là e al di qua in un confine, e pur integrandosi più o meno completamente nel tessuto sociale dello Stato di residenza, mantiene stretti legami con chi è rimasto dall’altra parte della frontiera. «Una volta passato il confine e finito in mano ai cartelli – continua Vecchia – la provenienza non ha più importanza – sottolinea però il giornalista – va anche ricordato che tutto questo non sarebbe possibile se non ci fosse connivenza anche di tipo politico, quanto meno non sarebbe possibile con questi volumi e con questa durata. Poi ci sono le situazioni contingenti: il maggior afflusso di stranieri in Laos per essere impiegati dal regime, o il conflitto in Myanmar». C’è una città lungo il fiume Moei, in particolare, che è diventata rifugio per migliaia di dissidenti, anzi si stima addirittura che il loro numero sia doppio rispetto a quello degli abitanti (50 mila); si chiama Mae Sot e qui, letteralmente a ridosso della frontiera, non è strano che la resistenza birmana si avvalga anche del traffico di stupefacenti per poter sostenere lo sforzo bellico contro la giunta militare. Ma non sono i soli a sfruttare la richiesta di sballo mondiale per autofinanziarsi: «in alcune zone – sottolinea infatti Vecchia – il traffico è saldamente controllato dalla giunta militare, che controllano di fatto le frontiere, oltre che a tutta una serie di attori intermedi (come trafficanti cinesi e thailandesi)». Di fatto, chi sostiene la giunta militare del Myanmar sostiene anche queste attività illecite, sia direttamente sostenendo le attività economiche dei militari birmani, sia indirettamente: con le frontiere chiuse e sottoposte a embargo è difficile che passino altri beni, mentre la droga stranamente, anche grazie a ufficiali che chiudono un occhio, fa avanti e indietro senza problemi; per molte etnie birmane, strette tra la morsa del regime e quella della crisi economica provocata dall’isolamento, questa diventa l’unica fonte di reddito percorribile. E chi è che finanzia i militari? Verrebbe da rispondere “un po’ tutti”: secondo un report dello Special advisory council for Myanmar (Sac-M) ci sono almeno 45 aziende con sede in Austria, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, India, Israele, Russia, Singapore, Stati Uniti, Taiwan, Ucraina e altri Paesi (anche l’Italia) che hanno garantito le forniture necessarie al regime per mantenere in piedi la sua macchina bellica.
I mercati principali della filiera dell’oppio del Triangolo sono quelli cinesi e vietnamita, sia per una questione di vicinanza geografica, sia perché l’oppio viene utilizzato come ingrediente nella medicina tradizionale. La Cina in particolare è un tassello fondamentale nella storia della diffusione degli oppiacei nel Sud Est Asiatico: furono infatti gli ufficiali e generali del governo perdente di Chiang Kai-shek,riparando in Asia dopo la Rivoluzione popolare di Pechino nel 1949, a implementare come forma di autofinanziamento la coltivazione e il commercio di oppio ed eroina, diventando in alcuni casi veri e propri signori della droga e della guerra (come nel caso del mercenario cinese Khun Sa). Per quanto riguarda le metanfetamine secondo l’Ufficio sulla droga e il crimine delle Nazioni Unite nel 2021 nel Triangolo d’Oro sono state sequestrate 171 tonnellate di meth e derivati, pari a un miliardo di pillole. Oltre ai “Paesi di primo impatto” cioè gli Stati limitrofi, le pillole viaggiano fino in Giappone e in Corea, dove le mafie locali le distribuiscono ovunque, a partire da Australia e Nuova Zelanda. Ma non ne è indenne l’Europa. «In Italia si tratta di un fenomeno più recente, nel senso che la mafia italiana ha tradizionalmente privilegiato altri tipi di traffici. Oggi più che di accordi tra gruppi mafiosi nostrani – specifica il giornalista – parlerei di intese tra le nostre mafie e organizzazioni criminali internazionali e transnazionali, che si approfittano spesso dei flussi migratori». Nel girone infernale del narcotraffico, infatti, tratta di esseri umani e sostanze stupefacenti finiscono spesso per legarsi strettamente. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio Europeo di Polizia Europol oltre il 90% dei migranti irregolari che raggiungono l’Ue si avvale di trafficanti. Le stesse reti criminali del traffico dei migranti svolgono al 50% anche altre attività illecite: traffico di droga, armi, riciclaggio del denaro, che contribuiscono ai finanziamenti dei gruppi armati in Libia e Sahel. «L’Italia è esposta a questo tipo di traffici anche a causa della sua posizione centrale nel Mediterraneo: può essere che sul territorio non risultino quantitativi elevati, ma andrebbe indagata anche la situazione offshore» conclude Vecchia. Quanto ai traffici sul Mekong: «le frontiere in questo senso sono piuttosto porose, tanto che ci sono stati sequestri da milioni di pillole alla volta».
In Thailandia una politica di repressione estrema ha portato alla stigmatizzazione ferrea dei tossicodipendenti e, per associazione dell’Hiv con l’eroina, dei sieropositivi. Con conseguenze sociali enormi. Il 6 ottobre 2022 un uomo, un ex poliziotto di 34 anni, è entrato armato di pistola e coltello in un asilo a Uthai Sawan, un villaggio rurale nel nordest del Paese, e ha ucciso 34 persone, di cui 23 bambini. Dopo aver commesso la strage è tornato a casa, dove ha assassinato la moglie e il figliastro prima di suicidarsi. Era stato licenziato per problemi di droga, e quel giorno era appena uscito da un’udienza del processo. «La Thailandia si trova in una situazione paradossale – commenta Vecchia – non è più un Paese di elevata produzione, ma resta un hub fondamentale per la distribuzione ed export. In questo Paese si è deciso di sostituire le piantagioni con colture parimenti, o più redditizie, per una politica repressiva incentivata dalla politica locale, soprattutto da parte dell’ex monarca Rama IX. Si è puntato molto negli ultimi anni sulle produzioni biologiche: frutta, verdura e caffè». Un esempio virtuoso, all’apparenza. Ma come denunciato da diverse associazioni per i diritti civili, dall’entrata in vigore della “guerra contro la droga” voluta dal ministro Thaksin Shinawatra nel 2003 la giustificazione della lotta al narcotraffico è servita anche a mettere a tacere diversi dissidenti. Nel 2003 si verificarono oltre duemila esecuzioni extragiudiziali della polizia nei confronti di presunti trafficanti. Inoltre si tratterebbe di un sostanziale fallimento: dal 2009 a un primo bilancio della riuscita della stessa, nel 2016, i consumatori di stupefacenti sono passati da 2,5 a 2,9 milioni. Tanto che nel 2022 la dittatura militare che de facto, grazie anche all’appoggio della monarchia, governa la Thailandia ha deciso di allentare la presa, promulgando una delle legislazioni più aperte in materia di marijuana in tutta l’Asia.
Nel poligono della criminalità, l’oro che ha battezzato questo triangolo di violenza continua a passare di mano in mano tra trafficanti, ufficiali collusi e giunte militari dalle divise sporche di sangue. Il Mekong, come il fiume di droga che passa da un argine all’altro del suo corso, prosegue senza ostacoli il suo cammino. Non come i profughi dei conflitti dimenticati dell’Asia che trovano così impenetrabile una frontiera che per una pillola è così facile da attraversare.