L’assalto alla diligenza azzurra è iniziato e Matteo Renzi questa volta, dal pulpito delle prossime Europee, non si accontenta di ritagliarsi il suo spazio. L’obiettivo? Incarnare il nuovo Centro

Il 16 ottobre 2023 Matteo Renzi è stato nominato, da unico candidato, segretario nazionale di Italia Viva con 14.524 voti. «Bulgaria Viva» scherza qualcuno su un “plebiscito” che in realtà, più che acclamare, ratifica l’organigramma del Partito. Ma è anche “la conferma che [Renzi, ndR] non è di sinistra: fosse stato ancora nel PD, avrebbe perso anche da solo” scherza Luca Bottura su La Stampa. Ironie a parte, a un anno dal voto Renzi conta 7 senatori (compreso se stesso) e 9 deputati, più di quanti non fossero con lui nel settembre 2022. Il capogruppo a Palazzo Madama di Italia Viva Enrico Borghi avverte e più che altro spera che “i tempi in cui i voti si pesano e non si contano sono finiti”, memore anche dell’ultima esperienza da minoritario in un PD abbandonato perché “la casa di una sinistra massimalista figlia della cancel culture americana che non fa sintesi e non dialoga”. A far tenere banco però è soprattutto la “telenovela”, così la chiama Renzi stesso, con Carlo Calenda. I due durano da Natale a Capodanno e dividono ufficialmente il loro percorso con la scissione dei gruppi parlamentari. I senatori di Renzi restano autonomi, i quattro di Azione entrano nel gruppo misto, perdendo alcuni privilegi economici e non solo a Palazzo Madama. Soprattutto, è rotto il comunque mai davvero nato progetto per le europee: meglio correre da soli se ci si accorge (meglio tardi che mai) che un pollaio solo è troppo stretto per due galli. «Calenda può adesso guardare a Conte e cercare l’accordo con Schlein, io guardo al programma elettorale che abbiamo scritto insieme, a partire dal “sindaco d’Italia”» – dice Renzi. – «Meglio finire questa telenovela che farci ridere dietro da mezza Italia». E ancora, “io voglio fare politica, non vivere circondato da cavilli regolamentari e da rancori personali”. Eppure è proprio così che Renzi ha vissuto l’ultimo anno, con l’impressione che qualcosa bolla sempre in pentola sì, ma anche che ormai è uno stracotto. 

Dalle idee al posizionamento, il progetto centrista di Renzi si fa sempre più chiaro, ora sfoltito anche da competizioni interne. Certo non mancavano le divergenze fra Azione e Italia Viva, a partire dal salario minimo erto a modello di collaborazione fra le opposizioni, ma è difficile imputare la rottura del patto coniugale ai soli contenuti. Né Renzi Calenda si tirano indietro rispetto all’obiettivo di costruire un polo di attrazione ben distinto dalla destra che ammicca agli estremi e dal populismo di sinistra. Fatta dunque salva la bontà di un modello che guarda ai grandi riformisti di centro del mondo, da Emmanuel Macron a Joe Biden, non resta che il mero calcolo elettorale a spiegare il divorzio. I retroscena si sprecano, fra le intemperanze romane e le soffiate fiorentine, rimpallo di frecciate avvelenate che “quello immaturo” è lui. Un banco di prova fallimentare se doveva dimostrare la solidità di un progetto moderato e dedito al bene dell’Italia. Il test è rimandato a settembre (sennò le proteste dei genitori chi le sente…), in questo caso giugno, ma al netto dello spaesamento degli elettori, attoniti davanti all’immagine del politico che mette se stesso prima della politica, mettiamo tutti la mano sul fuoco sull’intelligenza algebrica del ganzo di Rignano sull’Arno e prendiamo per buoni i suoi calcoli.

Cacciato il primo gallo, Renzi ha infatti già puntato la prossima vittima. È la sua controparte moderata nelle idee e nel portamento, quello che secondo il senatore ha trasformato Forza Italia in “Forse Italia”. La leadership di Antonio Tajani è troppo debole e poco carismatica per non approfittare dei malumori nel suo Partito, ancor più se si tratta di accettare la sfida di Licia Ronzulli: la porta per lui è aperta, ma Renzi deve prima “decidere cosa fare da grande”. Tradotto: fare grande un partito e un progetto oltre che un nome proprio. Le prossime elezioni europee faranno quindi da sfondo a una prova di forza che potrebbe dare una bella mescolata al calderone. Se in Italia FI combatte la battaglia per “moderare” la sua maggioranza, in Europa il partito di Tajani ha un peso ancora più imprescindibile per gli alleati di Governo che di un accordo con il Partito Popolare Europeo hanno un disperato bisogno, ora che le vecchie amicizie di opposizione non bastano più. Le posizioni di Renzi e quella di Tajani non sono poi così diverse. Oltre che nel garantismo per formazione e nel modello draghiano, i due si ritrovano anche sull’esaltazione del merito, sulla giustizia (dalla separazione delle carriere dei magistrati all’intervento sull’abuso di ufficio), sullo slanciato europeismo. È qui che il ferro è finalmente caldo e va battuto in fretta.

Se il terreno nostrano è impervio, è la sponda europea la vera riva cui il vascello di Renzi punta, forte di una visione chiara sull’Ue, improntata alla grandeur e al protagonismo politico, contrapposto al perbenismo diplomatico degli ultimi mesi di mandato di Ursula Von der Leyen. L’Europa “dorme purtroppo”. «La Polonia potrebbe dimostrare che si vince al centro. Se vuoi mandare a casa gli estremisti devi fare opposizione dal centro, non muro contro muro da sinistra» accoglie fiducioso le urne polacche. Il sogno di Renzi parla di un’Europa “a più velocità”, con l’elezione diretta del presidente della Commissione e liste transnazionali. Aiuterebbe anche un favorino di Fratelli d’Italia che dice di “non avere alcuna preclusione” sull’abbassamento della soglia di sbarramento per le europee dal 4 al 3%, una proposta partita su impulso di Alleanza Verdi-Sinistra che farebbe comodo a molti. Voce fuori dal coro Maurizio Gasparri che “non si vede perché fare regali a Renzi, che per altro non arriverebbe nemmeno al 3%”. Il vicepresidente azzurro del Senato tifa invece per la sua squadra: “a De Gaulle sopravvisse il gollismo, così sarà per il berlusconismo”. Ad maiora.

Prima il posizionamento moderato, poi, a debita distanza dalla tornata elettorale, Renzi parte all’attacco a viso aperto: «c’è un mondo di Forza Italia che non crede più alle promesse di Giorgia Meloni e che guarda dall’altra parte. E a chi può guardare sul tema delle tasse, della libertà e della giustizia?» chiede al Franco Parenti di Milano. Impossibile ammiccare agli azzurri senza un ricordo al mentore: “non ho mai votato per lui e politicamente mi danneggiò, però trattarlo come un mafioso e mandante di stragi è una follia di certi pm”, gioca la facile carta d’attacco. Era stato lo stesso Silvio Berlusconi, però, a condizionare l’alleanza: Renzi «dice spesso cose giuste ma fino a quando non ne trarrà le conseguenze politiche, scegliendo la nostra metà campo, non si potrà andare al di là di occasionali convergenze in Parlamento» dettava poco prima di andarsene. Nessuno davvero pensa che Matteo Renzi possa diventare il nuovo Silvio Berlusconi di Forza Italia, e non lo pensa nemmeno lui che pure ricorda con orgoglio di essere stato “il secondo ad aver avuto l’onore di parlare alla Knesset” dopo il Cavaliere. Ma se Italia Viva raccogliesse, intanto in Europa, una posizione centrista di rispetto, sarebbe anche grazie ad una riuscita operazione di bandwagoning sul carro forzista. L’assedio è iniziato.

Assorbito dalla magagna di doversi trovare un elettorato, a distrarre Renzi non è solo l’alacre tessere di sottofondo per scollare pezzi di intonaco azzurro, ma sono anche i sondaggi. Quando si parla di gradimento dei leader, la sua figura è costretta a percentuali infime. Secondo un recente sondaggio di Quorum/YouTrend per SkyTg24, solo il 2% del campione approva il primo anno post-elezioni di Renzi, un titolo strappato senza fatica da Meloni (20%) e Giuseppe Conte (19%). Il giudizio positivo sull’ex sindaco di Firenze proviene soprattutto dal Centro e dal Mezzogiorno, meno dal Nord, e interamente dal solo centrodestra. Tutti calcoli che non sfuggono a chi conta le carte. Quanto a Italia Viva, secondo Pagellapolitica ad un anno dal voto si ferma al 2,8%. Insieme a FI (al 7,1%) supererebbe la Lega, con la differenza non indifferente che gli azzurri hanno perso un decimo di percentuale mentre Renzi ne ha presi due. Si metta anche questo nel pallottoliere.

Una piccola mano da Italia Viva al Governo è già arrivata in qualche occasione, salario minimo escluso, in particolare su giustizia e Ucraina, e non sarebbe così strano (né incoerente) assistere a repliche. Con quel savoir-faire che non è né maggioranza né opposizione, spesso saggio per candidarsi alla guida ma altrettanto odioso all’elettore che non si ricorda più per chi sta votando, Renzi non lesina parole di incoraggiamento per il Guardasigilli Carlo Nordio, così come per il ministro della Difesa Guido Crosetto, due delle figure più salde dell’Esecutivo. Si dichiara persino favorevole alla costruzione del Ponte sullo Stretto, una giravolta eseguita con nonchalance che lo porta dritto dritto a braccetto con il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, anch’esso reduce da anni di critiche rispetto all’opera. Un colpo al cerchio e uno alla botte, è così che Renzi attacca Forza Italia rigiocando le loro stesse carte: «FI ha abdicato al garantismo!» tuona l’ex sindaco. Il riferimento è al ritiro da parte di Forza Italia dell’emendamento di Pierantonio Zanettin al dl Omnibus che voleva introdurre limiti all’impiego dei trojan nelle intercettazioni. Un emendamento su cui Renzi si affretta a mettere il cappello, perché è proprio nel cortocircuito tra domanda e offerta che ci si ritaglia il proprio posto e in politica ogni spazio lasciato è perso. «Il Centrodestra è diventato il partito delle tasse» accusa ancora commentando la Manovra che, fra le altre cose, smantella il tesoretto di 230 milioni destinati alla 18 App, una delle misure più identitarie della sua esperienza a Palazzo Chigi. Più che un’appropriazione culturale è una puntata al rialzo dell’ex premier, che nel frattempo ha capito molto bene cosa vuole fare da grande.

Il manifesto elettorale di Renzi per le prossime europee è tracciato: una proposta moderata ma riformista, scevra da ideologie del Novecento e ricca di pragmatismo. Attenta al ceto medio ma a suo agio anche nei salotti. Minoritaria e restia alle alleanze, ma sicura del proprio peso politico. La crociata renziana, no, non punta ai vertici di Forza Italia, ma ambisce al suo bacino elettorale. Per farlo Italia Viva non ha che da far leva sulla pazienza moderata duramente messa alla prova dalla convivenza forzata in un’ampia maggioranza, forte di un ingrediente segreto: un tatticismo magistrale capace di trasformare una manciata di voti in un potere di veto. Che poi, voltando la medaglia, è la stessa amara maledizione del nostro sistema elettorale, tanto affezionato alle alleanze posticce e alle percentuali risicate, mentre chi ha il privilegio di sedere in maggioranza è spesso costretto ad allentare la presa sulle proprie radici. 
Sarà, forse, la rivincita del Centro: lo stesso centro che le velleità bipolariste cercano di smantellare da anni, che riposa stanco nelle astensioni di chi non si sente schierato. Ah, la vecchia Democrazia Cristiana sospira qualcuno.

FOTO: ANSA/FABIO CIMAGLIA