30 anni fa il cinema perdeva gli occhi onirici di Federico Fellini, ma il suo sguardo ha impresso un’orma incancellabile 

«Eravamo due poveracci. Andavamo a mangiare in una latteria in via Frattina e c’eravamo accattivati la simpatia della cuoca, ordinavamo uno spaghetto e lei sotto ci metteva due bistecche e due uova. Io e Federico Fellini facevamo lunghe passeggiate la sera: sognavamo, parlavamo di aspirazioni, progettavamo di diventare io un grande attore e lui sosteneva sempre, diceva: “ti assicuro, Albè, che io un giorno diventerò un grande regista, forse il regista più grande del mondo”. Solo che lo dovevo sostenere, lui c’aveva fame. Gli era rimasta solo una testa così, piena di capelli, su un corpo che ormai non si sosteneva più perché… perché era debole, deperiva di giorno in giorno. E io non potevo fare niente per lui… potevo divertirlo, potevamo ridere, scherzare insieme, ma non potevo sfamarlo perché anch’io ero un poveraccio. Non c’avevo ‘na lira. E poi arrivò il suo angelo salvatore, conobbe una ragazzina che faceva la radio, si chiamava Giulietta. Lui scrisse per lei una rubrichetta alla radio e si fidanzarono. Lei da buona emiliana cominciò a cucinare agnolotti, lasagne, tortellini e cominciò a ingrassare Federico. Cominciò a camminare da solo, cominciò a scrivere e cominciò a lavorare. Tutto quello che vi racconteranno che non sia quello che vi ho raccontato io, probabilmente non è la verità. E sapete perché? Perché probabilmente gliel’ha raccontata lui. Perché, dovete sapere, oltre ad essere un grande regista, Federico Fellini è anche un grande bugiardo, forse l’uomo più bugiardo del mondo. Però, aò, Federico c’ha una capoccia così». 

Il racconto reale del maestro del realismo magico lo offre Alberto Sordi ai microfoni della Rai ricordando gli anni ‘40 del ‘900, quando Fellini da Rimini sceglie di trasferirsi a Roma. L’incontro con quella che sarà sua moglie e volto di tantissimi suoi film, Giulia Anna “Giulietta” Masina, avviene nel 1942; Fellini è un redattore della rivista satirica Marc’Aurelio e dal trampolino della radio si tuffa nel cinema, dove è l’incontro con il regista Roberto Gastone Zeffiro Rossellini a far cambiare per sempre la storia non solo di Fellini ma del cinema italiano tutto. 

Il riminese collabora alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, cinque anni più tardi esordisce alla regia con Luci del varietà, diretto insieme ad Alberto Lattuada. Passano due anni e arriva Lo sceicco bianco, il film dell’esordio assoluto come regista, insieme a Michelangelo Antonioni (che è coautore del soggetto) ed Ennio Flaiano (coautore della sceneggiatura); nonostante l’interpretazione di Alberto Sordi sia eccezionale gli incassi del film sono deludenti, ma è l’inizio di un nuovo modo di fare cinema. 

Dopo una prima tiepida accoglienza i capolavori di Fellini iniziano a essere riconosciuti come tali: nel 1953 I vitelloni viene presentato alla Mostra del cinema di Venezia e vince il Leone d’argento; l’anno seguente il successo del regista viene assicurato da La strada, pellicola che gli vale il suo primo Oscar al miglior film in lingua straniera nel 1957 (istituito per la prima volta in quell’edizione). Con Il bidone del 1955 la critica parla di “un passo falso” del regista, ma due anni dopo Fellini torna a vincere un Oscar grazie a Le notti di Cabiria, nel 1960 esce La dolce vita – che si aggiudica un altro Oscar, per i costumi, la Palma d’oro e il David di Donatello oltre a tre Nastri d’argento – e tre anni più tardi il capolavoro , che ne definisce la consacrazione. Il film vince due Oscar (miglior film straniero e migliori costumi), 7 Nastri d’argento, il Gran Premio al Festival di Mosca, il New York Film Critics Circle Awards lo reputa il Miglior film in lingua straniera e la rivista Sight & Sound dal 1972 lo inserisce nella Top Ten dei migliori film mai realizzati. 

Il 1965 è l’anno del passaggio al colore con Giulietta degli spiriti, e l’anno successivo è alla regia del Fellini Satyricon; seguono I clowns (girato per la tv nel 1970), Roma (1972) e Amarcord (1973) che vale un nuovo Oscar a Fellini; in queste pellicole il regista si confronta con la tematica del ricordo e al centro dei film decide di porre le città nelle quali ha vissuto – Rimini e Roma – e non vi pone attori protagonisti in modo da rendere la trama sempre più evanescente e, lasciando spazio alle sue visioni oniriche, ricreare l’immagine di un mondo che vive, appunto, solo nel ricordo del regista stesso. 

Il 1976 è l’anno di Casanova e il ‘79 di Prova d’orchestra, nel 1983 esce E la nave va, nell’86 Ginger e Fred, nell’87 Intervista (per la tv) e l’ultima pellicola cinematografica è del 1990, La voce della Luna. È il 29 marzo 1993 quando riceve l’ultimo riconoscimento dell’Academy – l’Oscar onorario – prima della morte nell’ottobre dello stesso anno. 

Quello che è riuscito a fare il regista riminese è stato fondere uno stile onirico a un realismo magico che alcuni critici chiameranno “fantarealismo”; con una regia ricca di satira e sagacia, ironica ed erotica, ma anche legata a elementi autobiografici, quello insomma che durante la carriera del regista prenderà il suo nome, divenendo un aggettivo: felliniano. Al regista, però si devono anche altre parole italiane. Oltre all’aggettivo in uso fin dal 1960 per riferirsi all’“atmosfera onirica, le situazioni o i personaggi grotteschi o caricaturali dei film di Fellini” – si legge nel dizionario Zingarelli – entrano in uso i termini “amarcord”, che dal 1974 diventa un nome comune per riferirsi a “ricordo, rievocazione nostalgica di fatti, situazioni, luoghi appartenenti al passato”; “dolcevita”, il maglioncino a collo alto indossato nella pellicola da Pierone (Giò Stajano) in uso dal 1983 e presente solamente nel nostro idioma; “paparazzo”, nome del fotografo de La dolce vita che diventa, per antonomasia, il nome dei fotografi di attualità mondana; e “vitellone” passa a significare  “giovane di provincia che trascorre il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo”; ma anche “bidone”, nonostante lo scarso successo del film, diventa un sinonimo di truffe o impegni mancati. 
Lo stesso Fellini in un’intervista del 1993 disse: «avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendano gli americani con felliniano posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto» confermando anche le parole di Sordi che lo definiva il più bugiardo del mondo. Del resto cos’è un film, se non una bugia?