Dopo la pausa estiva, il ddl Made in Italy riapre il dibattito parlamentare. La visione politica è chiara ma non spazza via le criticità di un settore che invoca interventi urgenti e, soprattutto, davvero incisivi

Con 50 articoli approvati, la bozza del ddl Made in Italy ha ricevuto l’ok del Consiglio dei ministri e si appresta ad affrontare il vaglio delle Aule. Il testo è un documento programmatico, una bandiera, un’ode alla patria e alle sue eccellenze perché, al netto di ogni colore politico, la qualità delle nostre materie prime, il sapere artigiano tramandato nei secoli e l’inventiva che si radica nella tradizione inorgogliscono un po’ tutti. La lettera d’amore del Governo alle nostre imprese, però, non deve dimenticare che “a Roma Dio non è trino ma quattrino”.

Il contenuto del ddl può essere riassunto in tre macro-scopi. Il primo è quello di tutelare il nome dei prodotti Made in Italy nel mondo, attraverso un nuovo sistema di riconoscimento certificato e una più severa lotta alla contraffazione. Il secondo, più politico, punta sul recupero pedagogico e celebrativo del patrimonio culturale italiano. Il terzo rilancia un patto economico con le imprese tricolore. Andiamo con ordine.

Partiamo dalle etichette. Ormai da decenni i prodotti alimentari possono ottenere il riconoscimento delle sigle di qualità garantite dall’Unione europea, denominazioni diffusissime quali DOP e IGP. Ritrovare la stessa garanzia di qualità all’estero però non è così scontato, e il decreto introduce un nuovo bollino dedicato questa volta ai ristoranti italiani all’estero che servano prodotti DOCG, DOP, IGP e IGT. In aggiunta alle sigle già esistenti, il Governo introdurrà poi anche una certificazione per la pasta. Presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy sarà dunque istituita una Commissione tecnica sulla pasta che, oltre a promuovere una corretta informazione sulla qualità della pasta nelle etichette, attribuirà un bollino di qualità ai produttori più virtuosi. Al vaglio della Commissione elementi come scelta e miscelazione delle semole, laminazione, trattamento termico, estrusione, essiccazione. Scrupolosità e profonda conoscenza di regole e ricette sono importantissime per mantenere viva la qualità della tradizione, ma se vogliamo davvero dichiarare guerra all’italian sounding è soprattutto all’estero che dobbiamo comunicare il valore italiano. E la sfida di contrastare la popolarità delle catene Olive Garden (che, comunque, si tutelano con la dicitura di “italo-americano”) o di fermare l’orrore della pasta bollita nel latte o condita con il pollo non si vince certo (non solo…) con l’ennesimo adesivo appiccicato sulla vetrata del ristorante. A proposito di estero, il ddl promuove una delle riforme più discusse nel mondo dell’alimentazione: parliamo della serratissima lotta fra il Nutrinform Battery e il Nutriscore, che vede contrapposti in Ue il sistema di etichettatura italiano e quello francese. Sul tema le polemiche non si sono sprecate: tutto comincia quando Bruxelles esprime l’intenzione di apporre un’etichettatura nutrizionale fronte-pacco aggiuntiva per aiutare l’acquirente ad essere più consapevole di ciò che mangia, “in un’ottica di prevenzione dell’eccesso ponderale” e non solo. Il dilemma è: come si stabilisce la bontà nutrizionale di un alimento in senso universale e onnicomprensivo? Il Nutriscore, il “sistema a semaforo” di Parigi, classifica i cibi in base alla loro qualità alimentare in cinque categorie dal verde al rosso, un “sistema interpretativo/valutativo” che “non fornisce informazioni di carattere nutrizionale sull’alimento”. Viceversa il Nutriform, messo a punto in Italia e promosso dal ddl, fornisce indicazioni più dettagliate sulle caratteristiche nutrizionali dell’alimento quali calorie e nutrienti. Un’apposita app consentirà anche di tenere traccia di calorie e nutrienti consumati nel corso della giornata. Il primo metodo non tiene conto delle specificità del consumatore e soprattutto dà maggior peso alle componenti con effetti ritenuti “indesiderabili” piuttosto che a quelli con effetti benefici, “contrariamente a quanto emerge da studi nutrizionali più recenti e accreditati” come sostengono i fautori del metodo italiano. In compenso, si basa su un algoritmo in costante aggiornamento, tanto che molti prodotti inizialmente giudicati dannosi sono stati rivisti al rialzo (si pensi all’olio d’oliva che aveva scatenato non poche polemiche). L’etichetta italiana invece, complessivamente più esaustiva, presenta dubbi di natura etica, essendo stata promossa da Federalimentare, il raggruppamento dei principali produttori – possono essere le stesse aziende nel mirino delle autorità a giudicare i loro prodotti? Insomma, da un lato un sistema carente ma perfettibile, dall’altro un’etichetta completa ma in odore di conflitto di interessi. Come andrà a finire lo scopriremo ma il tremendo sospetto è che dietro alle quinte del dibattito si insceni il solito gioco di spartizione di grandi produttori e multinazionali. Basterebbe, per coerenza, dichiarare lo scopo di privilegiare i produttori nostrani (o francesi, a seconda) solo in quanto tali. Ma andiamo avanti.

Sulla contraffazione, il ddl integra il sistema sanzionatorio con un intervento diretto sul codice di procedura penale. Bene dunque un maggior controllo sull’illecito che vanifica di fatto tutto l’impegno profuso nella distribuzione di bollini e nell’elencazione di benefici nutrizionali. Nel concreto il testo prevede un aumento delle sanzioni, la semplificazione della distruzione di merce contraffatta e una “specializzazione dei magistrati”. Anche qui strumenti utili, da cui però non ci si aspetta una radicale inversione dei trend.

Per promuovere e incentivare le italiche bellezze, il ddl (almeno lui) punta poi sull’istruzione: a questo scopo verrà istituito un liceo del Made in Italy, un percorso “in grado di dare competenze storico-giuridiche, artistiche, linguistiche, economiche e di mercato idonee alla promozione e alla valorizzazione dei singoli settori produttivi nazionali” attivo dall’a.a. 2024/25. La speranza è quella di concretizzare sbocchi professionali effettivi e di monetizzare davvero il nostro patrimonio immateriale, grazie allo studio di materie come “economia e gestione delle imprese del Made in Italy; modelli di business nelle industrie dei settori della moda, dell’arte e dell’alimentare; Made in Italy e mercati internazionali”. La proposta riaccende anche il sempreverde dibattito sul liceo classico, per sempre apostrofato come un contenitore vuoto di nozioni senza sbocco anziché tutelato in quanto dizionario della nostra cultura e passepartout per il pensiero. Ad ogni modo, l’uno non esclude l’altro e un istituto di scuola superiore in grado di fare da ponte fra i giovani e le imprese è davvero qualcosa di cui il Paese ha bisogno. Quanto all’intento celebrativo del patrimonio italiano, il ddl istituisce per il 15 aprile la Giornata Nazionale del Made in Italy. Alzi la mano chi ne sentiva il bisogno. Passiamo oltre.

Ma veniamo al core più succoso del ddl: il Ministero di Adolfo Urso istituirà un Fondo Strategico Nazionale del Made in Italy, con una dotazione iniziale di un miliardo. Lo scopo principale è accompagnare la crescita delle filiere strategiche del Paese, in particolare quelle del legno-arredo, del tessile, della nautica, della ceramica e dei prodotti orafi. Come? Con sgravi fiscali, supporto per gli investimenti e un intervento anche nell’approvvigionamento delle materie prime critiche. L’Italia, spiega infatti Urso, possiede 16 materie prime critiche su 34, di cui le principali per batterie elettriche e pannelli solari. Peccato che le miniere siano state chiuse “oltre 30 anni fa per il loro impatto ambientale e perché non c’erano margini di guadagno”. Ora però “occorre riaprirle”, rivendica il ministro sollevando, manco a dirlo, un polverone. A livello fiscale, il Governo rimette le mani sul cosiddetto Patent box, un regime agevolato di cui possono fruire le imprese di design e ideazione estetica che si distinguono per il loro know-how. Con uno stanziamento di 202 milioni, la detassazione per queste aziende va dal 110% al 150% ma solo “nel caso di disegni e modelli” e sale anche il credito di imposta, dal 5 al 10% con un tetto massimo aumentato a quattro milioni annui. Fra le voci finanziarie anche 60 milioni per vivaistica floreale, imprese boschive, lavorazione del legno e produzione di fibre di origine naturale. Altri 15 milioni a supporto dell’imprenditorialità femminile. E ancora ceramica, nautica da diporto e servizi di consulenza per la brevettazione. L’ambito interessato dal ddl è ben circoscritto ma la sensazione di molti commentatori, che trova (s)conforto in una prima lettura della bozza, è quella di una pioggia di milioncini spalmati in decine di voci contabili, con il risultato che il ddl sia più formale che incisivo, strizza l’occhio ma non rivoluziona niente. Insomma, ammicca ad un patriottismo sano e orientato alla qualità senza però trascinare davvero le pmi che si barcamenano fra aiutini e bonus. Su tutto questo si stende, minacciosa, anche l’ombra di Bruxelles che non mancherà di verificare se questi sostegni non si configurino come aiuti di Stato.

Lo spettro del “provvedimento-bandiera” si allunga. Vanno in questa direzione anche i 10 milioni di euro (20 nel 2025) per l’Esposizione nazionale permanente del Made in Italy, un’idea che incarna la differenza fra una bella vetrina e un volano per la produttività industriale. Un altro punto su cui concordano gli esperti del settore (per citarne uno a caso, il Centro studi di Confindustria) è il ruolo centrale dell’innovazione nella conquista di nuovi spazi di mercato. Non una comparsata marginale né “una delle tante” mosse da giocare, ma un cavallo di battaglia necessario. Innovazione significa digitalizzazione dei processi, in particolare di quelli di vendita, ma anche sostenibilità, ormai cuore imprescindibile di ogni brand reputation efficace. Il rischio, altrimenti, è che mentre i grandi gruppi (ad esempio, le multinazionali francesi della moda) accumulano valore aggiunto sfruttando le produzioni nostrane, alle imprese italiane tenute a galla da mance di sopravvivenza non rimangono che le briciole delle subforniture. Peccato che nella bozza del ddl la parola “innovazione” compaia appena e in modo quasi solo nominale («il design italiano è promosso e tutelato quale primario fattore di innovazione…»). Decine di menzioni invece per la “promozione”: dell’immagine dell’Italia, del territorio, delle bellezze naturali e artistiche, delle eccellenze, della creatività, delle opere di ingegno. Anche qui, l’una non esclude l’altra, ma per quanto sarà sostenibile vivere di rendita sfoggiando una creatività irripetibile che però non è in grado di sostentarsi da sola?

Complessivamente le associazioni di categoria esprimono un pacato ottimismo. Positivo il giudizio di Coldiretti che plaude soprattutto alle misure di contrasto al falso Made in Italy e all’italian sounding, ma non stupisce il benestare di quella che si configura sempre più come una lobby che non come un sindacato indipendente. Bene anche per Confcommercio, con Federmoda che auspica un’aliquota Iva agevolata del 10% sui prodotti Made in Italy e il presidente Carlo Sangalli che parla di una “preziosa occasione per valorizzare il sense of Italy, decisivo per servizi e turismo, e per rilanciare l’azione di contrasto di abusivismo e contraffazione”. Semaforo verde anche per Confartigianato che guarda con fiducia a un provvedimento volto a “difendere l’identità delle nostre imprese” e “valorizzarne l’eccellenza sui mercati internazionali”. Insomma, i bollini per certificare le eccellenze italiane sembrano piacere molto alle associazioni di categoria, anche se nel concreto non è ben chiaro come immaginario e senso comune possano tradursi in Pil e posti di lavoro. Il rischio è di perdersi in formalismi e nominalismi, lasciando che le preziosissime tradizioni del Paese diventino orpelli da museo. Per non parlare di chi dovrebbe pagare una severa multa, da cinque a 100mila euro, per forestierismo linguistico, come suggeriva un collega di Governo.