Il 12esimo presidente di Ankara ottiene il terzo mandato e a 100 anni dalla presidenza di Mustafa Kemal Atatürk apre “il secolo della Turchia”
Sono le quattro e 17 minuti del mattino sull’ora del Caucaso, il fuso orario che anticipa di tre ore il tempo coordinato universale. È il 6 febbraio del 2023: la Turchia meridionale e la Siria settentrionale vengono colpite dalla scossa di terremoto più forte mai registrata negli ultimi 2.000 anni; a distanza di pochi minuti ne arriva un’altra, e un’altra ancora, e così per tutto il giorno. La terra trema sotto i piedi, i letti, le strade di milioni di abitanti e forse, per un attimo o più, trema anche il “trono” su cui siede Recep Tayyip Erdoğan.
Nonostante questo inizio catastrofico (l’ultimo bilancio delle vittime turche accertate parlerà di oltre 50mila morti a cui si aggiungono sfollati, dispersi e feriti), il 2023 è un anno importante per la Turchia: la nazione festeggia il centenario della nascita della Repubblica a opera di Mustafa Kemal Atatürk, il “padre dei turchi”, e, a maggio, in occasione dell’elezione del Presidente della Turchia e il rinnovo della Grande Assemblea Nazionale Turca – il parlamento con sede ad Ankara – Erdoğan viene confermato nel suo terzo mandato. Al di là delle dovute differenze storiche e politiche, i due personaggi sono allo stesso tempo specchio e risposta dell’evoluzione di un popolo. E in questo scenario il devastante sisma si aggiunge a un appuntamento elettorale già difficile.
La storia turca condivide con qualsiasi altra storia nazionale alcuni caratteri, potremmo dire, di universalità, in primis la tendenza a individuare date chiave che guidino il popolo nella costruzione di una timeline in cui identificarsi. Da questa prospettiva la storia della Turchia può essere fatta iniziare nel 1453 quando i Turchi ottomani, di religione musulmana, conquistarono Costantinopoli – la Nuova Roma, la Città d’oro – decretando la caduta dell’Impero Romano d’Oriente (quello d’Occidente, gli europei lo sanno bene, era già caduto nel 476), anche detto Impero bizantino. La presa di Costantinopoli, che da quel momento assunse il più moderno nome di Istanbul, era parte di un progetto di espansione iniziato dalla dinastia ottomana, fondata da ῾Othmān I, che dall’Anatolia centro-occidentale aveva già portato alla conquista della Grecia, dei Balcani orientali e di buona parte della penisola anatolica e che andò avanti anche dopo la caduta dei bizantini fino a includere la Romania, la Serbia e la Bosnia, la restante Anatolia, la Siria, la Palestina, l’Egitto, l’Hijaz e l’Algeria. Il momento di massima espansione venne toccato nel 1683 quando sotto il nome di Impero ottomano rientrarono 6,9 milioni di chilometri quadrati di territori.
Alla prosperità, tuttavia, segue, storicamente universale, il declino: nel caso degli ottomani un declino lento ma inarrestabile, mosso dai numerosi nemici alleatisi, dalle spinte indipendentiste dei conquistati e da una certa incapacità degli eredi della dinastia a governare un così vasto territorio. L’Impero che si presenta alle porte del XX secolo è ormai fortemente ridimensionato e il suo governo ha preso una deriva dispotica e autoritaristica. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale – a questo punto i territori si sono ridotti a 1,8 milioni di chilometri quadrati – lo Stato ottomano scende in campo al fianco degli Imperi centrali. L’esito del conflitto porterà al Trattato di Sèvres che sancisce la caduta dell’Impero ottomano e ne smembra i territori, delineando la nascita di una Turchia la cui sovranità viene fortemente limitata. Il patto, firmato dai funzionari del sultano Maometto VI, non verrà mai ratificato perché fortemente osteggiato dai nazionalisti turchi e dal loro uomo forte, l’ex pascià Mustafa Kemal, che il 19 agosto del 1920 si erge contro il trattato e i suoi firmatari, definendoli “traditori della patria”, e si adopera per raggiungere con il Movimento Nazionale Turco “la piena indipendenza all’interno della linea d’armistizio dell’ottobre 1918”. L’obiettivo viene raggiunto, a costo di una guerra civile, il 24 luglio del 1923 con la firma del Trattato di Losanna che annulla il precedente trattato di pace e ristabilisce i confini della Turchia, riconosciuta come Stato indipendente, dando una mano di bianco sulla storia ottomana. Morto il sultanato, abolito ufficialmente il 1° novembre precedente, il 29 ottobre 1923 viene proclamata la Repubblica di Turchia e Mustafa Kemal ne diventa il primo presidente.
Ripercorrere la genesi della Repubblica e l’operato del suo artefice non è un puro esercizio storico ma un tentativo di fornire una chiave di lettura al personaggio di Erdoğan e al valore della sua terza vittoria alle urne. Il paragone, tra Erdoğan e Kemal, non è certo inedito e anzi, nel combaciare delle elezioni con il centenario molti hanno intravisto una significativa casualità. Oggi Kemal è ricordato innanzitutto come fondatore del Paese e “padre dei turchi” (titolo ufficialmente assegnato dal Parlamento nel 1934 con il cognome Atatürk), ma anche come ispiratore dell’ideologia del kemalismo che ha caratterizzato la sua presidenza fino alla morte, avvenuta nel 1938. All’ex pascià è stato attribuito il merito di aver modellato il nascente Stato turco sul modello europeo, superando quella che tutti credevano essere una contraddizione in termini, l’unione tra nazionalismo e Islam, e dando vita all’“eccezione turca”. Kemal, racconta la storia,avrebbe condotto il popolo turco verso i tempi moderni, costruendo riforma dopo riforma, uno Stato laico, democratico, egualitario, industrializzato e scolarizzato. Erdoğan ricalca alcuni tratti del pater patriae e si discosta da altri, fa suo il forte nazionalismo ma gli dà una marcata impronta islamica; come Atatürk ha forse creato uno spirito turco, modellandolo, l’odierno presidente ne ha colto gli aspetti più reconditi e ha dato loro una voce e una guida; se il fondatore dello Stato ha cercato di raccogliere i pezzi dell’Impero ottomano ormai decaduto e ridare loro una dignità sovrana, il capo di oggi vede gli ex territori ottomani come zone in cui guadagnare e imporre la propria influenza. È vero che in molti guardano con malinconia storica a quel leader, preso a simbolo della democrazia, ma è vero pure che gli anni, i decenni, hanno contribuito a creare una patina sulle azioni di quello stesso leader, non colpevole di aver trasformato lo Stato in una dittatura ma sicuramente non senza responsabilità nella repressione dell’opposizione politica. La sua figura, oggi, è funzionale: è la bandiera dei laicisti contro l’islamizzazione della società e per questo intoccabile. Ma è anche un monito, perché più di tutto ad accomunare Atatürk e Erdoğan è la cosiddetta “sindrome di Sèvres”. Il declino dell’Impero prima e il trattato del 1920 hanno infatti lasciato un’ombra sull’identità turca, un trauma collettivo che si ripercuote inarrestabile sulla res publica. Il tentativo “straniero” di smembrare quello che era stato il cuore degli ottomani, l’Anatolia, ha fatto sì che la sicurezza nazionale turca venisse costruita sulla continua minaccia di intervento interno ed esterno. I due statisti, a distanza di un secolo l’uno dall’altro, rappresentano una risposta a questa “sindrome” che ne spiega forse in parte le scelte. E spiega anche perché, in un ciclo continuo, le autorità turche abbiano puntato il dito contro questo o quello Stato, quella o questa etnia, nel tentativo di individuare una potenziale minaccia.
Al netto di somiglianze e differenze marcate, in ogni caso, non è nel confronto con Atatürk che Erdoğan si è ritagliato il suo spazio, ma in una piazza che è solo sua. Il consenso che ormai da decenni aleggia intorno a lui è dovuto in larga parte a un innegabile carisma, un magnetismo biografico che attrae gli appartenenti alle classi sociali più povere, da una parte, e le classi sociali più abbienti del mondo Islam, dall’altra. Figlio di immigrati, cresciuto in un quartiere operaio di Istanbul, da adolescente aiuta la famiglia vendendo limonata e simit, calciatore in erba rinuncia al sogno in virtù dei desideri del padre per proseguire la sua vita come giovane studente universitario e militante nei circoli politici. Recep parte dal basso e sale a uno a uno gli scalini verso la vetta: sindaco di Istanbul, primo ministro, presidente. L’esempio di chi lavora per ottenere ciò che vuole e cambia le proprie sorti e il proprio status, un’immagine irresistibile per l’elettorato. Dopo la laicizzazione dello Stato kemalista, il “Sultano” riporta l’Islam in politica, seguendo le orme del suo mentore Necmettin Erbakan: il discepolo segue il maestro nel Millî Selâmet Partisi (Partito nazionale di salvezza) prima e nel Refah Partisi (Partito del benessere) dopo. Quando Erdoğan diventa il primo sindaco islamico della città sul Bosforo, nel 1994, due anni più tardi Erbakan è il primo premier islamico nella storia della Turchia repubblicana. Entrambi cadono nel 1997 con il cosiddetto “golpe bianco”, o “golpe post-moderno” per la sua mancanza di atti militari e quindi di scontri fisici, quando le Forze Armate presentano le 28 Şubat kararlar, le “decisioni del 28 febbraio”, chiedendo una serie di interventi per la laicità e la democrazia dello Stato. Il primo ministro accetta il memorandum ma non lo mette in pratica, ricevendo via via sempre più pressioni dal Consiglio di Sicurezza Nazionale che infine lo costringerà alle dimissioni, riservandogli l’interdizione dalla vita politica per cinque anni e imponendo lo scioglimento di tutti i partiti islamici. L’episodio e le sue conseguenze hanno più chiavi di lettura: da una parte si tratta degli ultimi rigurgiti dell’eredità lasciata da Atatürk all’esercito, dall’altra la spinta per Erdoğan e l’islamismo politico a combattere per uno spazio sempre più ampio nello Stato.
Dalla sua proclamazione nel 1923, la Repubblica di Turchia ha avuto nell’esercito un elemento sempre determinante per la vita politica e sociale. Kemal, leader militare prima che politico, ha lasciato in eredità alle Forze armate il compito di proteggere la laicità del Paese, cosicché nel XX secolo si sono susseguiti interventi militari e colpi di Stato a limitare i governi. Tale ruolo ha cominciato a incrinarsi nel 2010 quando un referendum ha cancellato dalla Costituzione l’immunità per gli autori dei golpe militari e si è sfaldato completamente nel 2016, dopo il fallito colpo di Stato ai danni di Erdoğan, lo stesso che aveva vissuto l’ascesa più importante proprio dopo i fatti del 1997. Durante le manifestazioni di protesta per le dimissioni forzate di Erbakan, l’allora sindaco pronuncia alcuni versi erroneamente attribuiti al sociologo turco Ziya Gökalp, considerato padre del nazionalismo turco, ma in realtà scritti dal poeta e pittore turco Mehmet Cevat Örne, versi ritenuti offensivi rispetto ai principi laici dello Stato kemalista. Quelle parole (“Le moschee sono le nostre caserme, / le cupole i nostri elmetti, / i minareti le nostre baionette / e i fedeli i nostri soldati”) gli valgono una condanna per incitamento alla violenza e all’odio religioso e razziale – condanna che successivamente il presidente contesterà davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la stessa Corte le cui sentenze, in altre occasioni, “non sono vincolanti per Ankara” – e l’ineleggibilità come primo ministro dopo la vittoria del suo nuovo partito, l’Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), alle elezioni del 2002. Quella tornata elettorale, superata dalla formazione con il 34,3% dei consensi, rappresenta l’inizio di un periodo di centrismo politico che prosegue ancora oggi. Nel marzo del 2003, dopo un’opportuna modifica costituzionale e la ripetizione delle votazioni nella provincia di Siirt, Erdoğan riesce a ottenere la carica di premier; l’Akp continua a dominare le parlamentari anche nel 2007 e nel 2011 mentre nel 2014 il suo leader ottiene la carica di Presidente, per la prima volta eletto dal popolo e non dal Parlamento. Il secondo mandato arriva nel 2018 e, infine, il terzo nel 2023, tra tutti i dubbi del caso.
All’alba delle elezioni dello scorso 14 maggio, definite “le più combattute della storia turca”, le incognite non erano poche. Il Paese era reduce del devastante terremoto e le polemiche sulla gestione dell’emergenza erano accese: lo Stato è stato accusato di aver gestito male la macchina dei soccorsi e degli aiuti, salvo poi recuperare in fretta e furia – secondo alcune ong umanitarie appropriandosi di aiuti civili – in vista dell’appuntamento alle urne. Non sono mancati, poi, i sospetti che proprio il sisma avesse fornito un’occasione per pilotare il voto, accrescendo la preoccupazione degli osservatori internazionali per la limitazione della libertà di stampa ed eventuali brogli elettorali. Sui pronostici ha pesato, ancora, la grave crisi economica, caratterizzata da pesante svalutazione della lira turca, inflazione galoppante e tassi di interesse artificiosamente bassi, nonché politica, con un’opposizione stranamente e strenuamente unita davanti alla “deriva autoritaristica” del ventennio di potere dell’Akp che avrebbe fortemente inciso sull’ormai lontana laicità dello Stato e sulle libertà civili. Il voto, dopotutto, l’ha confermato: quello a favore del Sultano non è stato un plebiscito ma un voto fortemente polarizzato, influenzato dall’appoggio del candidato nazionalista Sinan Oğan e dal suo 5,2% dei consensi al primo turno.
Dubbi a parte, lo scorso 28 maggio, al ballottaggio contro il leader del Cumhuriyet Halk Partisi, partito erede del kemalismo, Kemal Kılıçdaroğlu, Recep Tayyip Erdoğan ha ottenuto il 52,1% dei voti, non scontentando i sondaggi e passando alla storia come lo statista più longevo nella storia della Repubblica. A premiarlo alle urne sarà forse stato il ruolo che è riuscito a far ottenere alla Turchia sullo scacchiere geopolitico degli ultimi anni. Il suo elettorato di Kasımpaşa, quartiere di Istanbul in cui è nato e cresciuto, lo definisce “un leader mondiale” che ha reso il Paese “importante nel mondo”, un Paese “che non prende ordini da nessuno”. E anzi, potremmo aggiungere, un Paese che sembra diventare sempre più protagonista di quello scacchiere, se consideriamo il ruolo avuto nel conflitto russo-ucraino – con il presidente a fare da mediatore tra Zelens’kyj e Putin -, nell’ambito dell’Alleanza Atlantica – dove Erdoğan ha espresso l’ultima parola sull’ingresso nella NATO della Svezia, accusata di dare rifugio e appoggio ai militanti del PKK curdo – ma anche nel Vecchio Continente – dove la Turchia ricopre il ruolo di Paese strategico nella gestione dei flussi migratori dal Medio Oriente.
«La nostra gente ci ha dato ancora fiducia, sarà il secolo della Turchia», profetizza Erdoğan all’indomani della sua vittoria. Ma alla luce del suo spiccato ottomanismo forse è più corretto dire che quello a venire sarà il secolo del rinato impero e che lui, di questo impero, sarà il nuovo erede.
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