Dalla “Family” di Charles Manson al massacro di Shakahola, quelle zone d’ombra tra spiritualità e distruzione che diventano regno dei “guru”

La foresta di Shakahola è impenetrabile. È un territorio difficile da affrontare persino per i ranger locali più esperti, nelle migliori condizioni: il luogo ideale per nascondersi, far perdere le proprie tracce. E anche nascondere un cadavere. In alcuni casi, ben più di uno. Siamo in Kenya, poco distanti da Malindi, una delle destinazioni turistiche più apprezzate nel continente africano. A pochi chilometri da hotel, resort e centri commerciali, dove il terreno si fa più sconnesso, la natura reclama il suo potere e il cemento lascia il posto a scomposti gruppi di capanne, sorge Shakaola, diventata triste protagonista delle pagine di cronaca nera dei quotidiani di tutto il mondo. Un pastore di nome Paul Mackenzie Nthenge, a capo della Good News International Church, la Chiesa internazionale della buona novella, ha convinto i suoi adepti a smettere di sfamarsi e lasciarsi morire di fame, perché tramite il digiuno avrebbero potuto incontrare Gesù. Sono morte più di 250 persone e il massacro è stato scoperto insieme ai cadaveri delle vittime, sepolte in fosse comuni poco profonde nella foresta, in un terreno di proprietà di Nthenge. La tragedia di Shakahola ha evidenziato uno dei grandi problemi, spesso sottovalutati, delle società moderne: la mancanza di una regolamentazione che conformi alla legge chi dirige le comunità religiose. La libertà di culto, ovviamente sacrosanta, diventa terreno accidentato in quelle zone d’ombra del mondo (e della società) in cui la “religione” non è che uno strumento di potere in mano a personaggi di dubbia moralità: e così proliferano le sette nell’accezione più negativa del termine, lesive in tanti casi dei diritti umani più basilari.

Facciamo un passo indietro. Le sette sono organizzazioni a carattere religioso (ma esistono, meno diffuse, anche a carattere politico o filosofico) in cui si segue una dottrina minoritaria che generalmente nasce ispirandosi a culti già esistenti da cui poi si distacca per aspetti dottrinali o pratici, fino ad arrivare a rinnegarla completamente. Sono zone d’ombra tra spiritualità e autodistruzione, miasmi che nascono in quegli spazi vuoti lasciati dalle religioni tradizionali, ma non solo; le sette proliferano laddove ci sono condizioni di sofferenza, dolore, sfiducia e isolamento. Queste organizzazioni hanno una struttura piramidale molto forte: c’è un leader, una persona molto carismatica che incarna la figura del “maestro spirituale” (in qualunque modo lo si voglia definire, talvolta è “gran sacerdote”, altre volte solo “guru”) e instaura un rapporto di dipendenza e ossessione con i propri adepti, diventando così elemento di coesione, continuità ed ordine interno. Se la setta ha pochi membri, il leader è anche sacerdote: altrimenti potrebbe delegare le celebrazioni ad altre figure anziane, i cosiddetti “ministri” che tendenzialmente coordinano le attività dei membri e dei reclutatori. Generalmente gli adepti aderiscono volontariamente a una setta ma non c’è libero arbitrio nella scelta di conversione, perché tutti loro subiscono – quando più, quando meno marcata – una forma di condizionamento mentale e fisico. Controllo e manipolazione sono in effetti i principi cardine su cui si basa questo tipo di setta religiosa: la spiritualità si fonde con l’abuso di droghe, le esperienze sessuali, la vocazione messianica dei leader, fino a raggiungere conseguenze estreme. Non sorprende, o quantomeno non dovrebbe, che le sette proliferino nei luoghi di guerra, fame e disperazione. La paura è un movente molto forte: una persona spaventata è in grado di accantonare qualunque pensiero razionale e credere a tutto ciò che le viene detto, soprattutto se cede alla lusinghiera promessa di un miglioramento delle proprie condizioni. Un esempio in tempi recentissimi è quello della zona di confine tra Turchia e Siria dopo il terremoto del 6 febbraio scorso: i gruppi settari di stampo religioso hanno intensificato le proprie strategie di proselitismo e indottrinamento sfruttando la paura degli sfollati. Uno degli elementi cardine che spesso accomuna queste realtà è il concetto dell’apocalisse, l’armageddon; va da sé che eventi funesti come un terremoto di queste proporzioni diventino un ottimo strumento per presentarsi come l’unica soluzione efficace a tutti i problemi, i “messia della salvezza”.  

Per le stesse motivazioni, le sette evangeliche trovano terreno fertile in Africa. Qui il tessuto della società è già profondamente religioso: il primo culto tradizionale dell’Africa Subsahariana è l’animismo, corrente che attribuisce un’anima a tutti i fenomeni naturali. Gli africani credono in un’energia che pervade ogni cosa, esseri viventi e non – Stephen King la definirebbe “il Subudibile” – e che è causa di ogni fenomeno, compresa la morte. Quando il concetto di religione è così vicino a quello di magia e si va in cerca di un colpevole per ogni fenomeno naturale che provoca un trauma (come accade nell’animismo con la morte, sia essa stata naturale o meno), è ancora più facile cedere alle lusinghe di personaggi come Nthenge.  

Terrificanti e misteriose, le sette hanno il potere di affascinare, almeno finché non vengono guardate da molto vicino. Negli anni ’80 le organizzazioni religiose di questo tipo hanno vissuto un momento di forte proliferazione e soprattutto negli Stati Uniti la popolazione ha attraversato un periodo di vero e proprio “panico satanico”. Erano gli anni di Charles Manson e della sua “Family”: tutti ricordiamo la storia drammatica di Sharon Tate e delle quattro persone che si trovavano con lei nella villa di Hollywood, che sono state massacrate dalla furia della “famiglia” di Manson. Un altro nome noto di quel periodo è Anne Hamilton-Byrne, i cui adepti avevano rapito 28 bambini di età diverse, per tingere a tutti i capelli di biondo platino e convincerli di essere fratelli: i piccoli erano stati drogati con LSD, abusati, sottoposti a vessazioni fisiche e psicologiche, in nome di questa donna australiana che si presentava come la reincarnazione di Gesù. O ancora possiamo citare gli adepti di Heaven’s Gate, setta “ufologica” i cui membri erano convinti non solo che gli Ufo esistessero ma anche che al momento della morte gli extraterrestri li avrebbero trasportati con una navicella spaziale verso il “Next Level”, il paradiso. I membri di Heaven’s Gate sono stati convinti dal loro leader a suicidarsi nel giorno del passaggio della cometa di Hale-Bopp (secondo loro una navicella che avrebbe accolto le loro anime ormai immortali).  

Benché possa sembrare razionalmente assurdo quanto accaduto in Kenya o negli States di qualche decade fa, quello delle sette (nell’accezione più negativa del termine) non è un fenomeno relegato unicamente al passato o al terzo mondo. Viviamo nell’era del progresso scientifico e tecnologico, in cui sembra non esserci più spazio per alcun aspetto irrazionale della vita quotidiana, ma anche questo crea un divario tra il nuovo modo di pensare e percepire la spiritualità e i valori statici delle religioni istituzionali. Anche le sette si aggiornano, insomma, e il rischio è sempre che le zone in ombra diventino ricettacolo di follia e d’illegalità.