Una studentessa scompare e viene ritrovata morta nell’hotel degli orrori: cosa nasconde il Cecil Hotel?

È cosa nota, persino tra gli scettici, che alcuni luoghi più di altri emettano una loro energia: è come un brivido, si muove sotto pelle, si respira confondendosi tra gli odori quotidiani, si avverte in un angolo della mente. A volte è solo una sensazione, colpisce con l’inquietante precisione con cui ci rendiamo conto di essere osservati quando siamo girati di spalle; altre volte soprattutto le persone più sensibili l’avvertono con maggiore precisione. È difficile dare un nome a un fenomeno del tutto casuale e irrazionale, eppure è una verità; esattamente come esistono luoghi in grado di trasmettere serenità, ce ne sono altri su questa Terra in cui ciò che si respira è più sinistro. Confuso. Inquietante. Los Angeles, California. La città degli angeli, del sole, del cinema. La metropoli idilliaca, incarnazione perfetta del “sogno americano”, un enorme palcoscenico a cielo aperto che offre scintillanti promesse di realizzazione e felicità. Ma oltre Hollywood, oltre i negozi lussuosi e le strade trafficate, superata quella invisibile linea che segna il confine tra ciò che è illuminato dal sole e le ombre più fitte, sorge il Cecil Hotel. Appollaiato al confine di uno dei quartieri più malfamati della città, Skid Row, con i suoi 15 piani di altezza sembra dominare sul paesaggio come fosse un cancello, un punto di passaggio, tra la lussureggiante California e… qualcos’altro.

Elisa Lam aveva 21 anni quando mise piede per la prima volta in California. Era una studentessa di biologia del British Columbia di Vancouver, in Canada: appassionata di viaggi e microblogging, amava condividere i suoi pensieri e le sue storie di vita quotidiana su Tumblr. Era stato proprio tramite la piattaforma che aveva dichiarato la sua intenzione di compiere quel viaggio lungo la West Coast statunitense da sola: un’avventura per riscoprire se stessa, per dimostrare che era in grado di cavarsela. Dopo la prima tappa a San Diego, era arrivata a Los Angeles: aveva scelto di soggiornare allo Stay on Main, un ostello della gioventù che sorgeva tra il terzo e il quinto piano del Cecil Hotel. Elisa non era forse a conoscenza della fama dell’albergo ma è probabile che non le sarebbe nemmeno importato: d’altronde è difficile per la farfalla avere paura della tela del ragno finché non ci si trova intrappolata nel mezzo. Da quando era arrivata negli States, Elisa provava un senso di pace e benessere nuovo: non mancava mai di aggiornare il suo blog e telefonava quotidianamente ai suoi genitori in Canada. Almeno fino al 31 gennaio del 2013, giorno in cui avrebbe dovuto lasciare il Cecil per dirigersi a Santa Cruz. Per la prima volta dall’inizio del suo viaggio, Elisa non chiamò casa. Nel giro di qualche ora i suoi genitori diedero l’allarme e il Cecil Hotel si riempì di forze dell’ordine in cerca della studentessa: ma Elisa sembrava essere scomparsa nel nulla.

Durante la prima fase delle indagini sulla scomparsa, i detective si concentrarono sul luogo della sparizione. Skid Row non era posto adatto a una giovane donna sola: il quartiere era un’accozzaglia di povera gente, indigenti, senzatetto, prostitute; un luogo in cui il tasso di criminalità era così alto da costringere le forze dell’ordine a scegliere a quale chiamata rispondere. Posto al confine tra Skid Row e il resto della città, il Cecil era conosciuto come “l’hotel degli orrori”: non servivano troppe garanzie per soggiornarvi e raramente qualcuno faceva domande sugli ospiti. Nel corso del tempo, era stato il covo di assassini e serial killer: uno su tutti Richard Ramirez, meglio conosciuto come “Night Stalker”, che in una stanza dell’ultimo piano del Cecil eseguiva i suoi rituali satanici mutilando, stuprando e torturando le sue vittime. È legato al Cecil anche Jack Unterweger, poeta austriaco assassino che uccideva le sue vittime strangolandole con il reggiseno; e tra le vittime più celebri ricordiamo Elizabeth Short, la “Dalia nera”, trovata morta dopo esser stata vista al bar dell’hotel. Con questi antefatti è chiaro che, alla scomparsa di una giovane studentessa canadese, chiunque fu portato a credere che Elisa si fosse imbattuta in un malintenzionato, dentro o fuori dalle mura dell’albergo. Ma ogni indizio raccolto portava a un nulla di fatto. C’era solo una traccia che sembrava nascondere di più: un video, ripreso dalle telecamere di sorveglianza dell’hotel, che mostrava quelli che si presupponeva fossero stati gli ultimi istanti di Elisa Lam al Cecil Hotel. Nella speranza di cavarne qualche informazione utile, la polizia lo rese pubblico. Nel video si vede Elisa entrare in ascensore: è chiaramente agitata, schiaccia numerosi tasti, aspetta qualche minuto che le porte si chiudano ma non succede mai; l’ascensore rimane aperto e la ragazza sembra andare nel panico: si guarda intorno, cerca di nascondersi, torna sulla soglia dell’abitacolo, esce in corridoio e poi torna di corsa nella cabina salvo affacciarsi nuovamente, guardare a destra e sinistra; a quel punto inizia a gesticolare: braccia e mani si muovono a scatti, come se stesse parlando con qualcuno. Poi Elisa si allontana: quando sparisce dall’inquadratura, le porte dell’ascensore si chiudono e tutto riprende a funzionare. Il video diventò virale in men che non si dica e scatenò l’attenzione dei “segugi del web”: appassionati di true crime, di paranormale, giornalisti investigativi in erba e youtuber si scatenarono in teorie sempre più paradossali. C’era qualcuno fuori da quell’ascensore? Elisa stava scappando dal suo assassino? O era inseguita da un fantasma?

Il 19 febbraio 2013, 20 giorni dopo la scomparsa di Elisa, gli ospiti dell’hotel sporsero un reclamo: l’acqua aveva uno strano sapore, colore, inoltre arrivava molto piano, come se qualcosa non funzionasse nella pressione. Il manutentore salì sul tetto per controllare la cisterna principale e fece la raccapricciante scoperta: Elisa Lam era lì. Era sempre stata lì: galleggiava nuda nell’acqua fredda, i vestiti adagiati sul fondo della cisterna, la pelle innaturalmente bianca. Parte integrante del Cecil Hotel, da cui non era mai uscita. Il Cecil, che non l’aveva mai lasciata andare via. Elisa era morta ma ancora nessuno sapeva cosa le fosse successo: non aveva assunto droghe, non aveva subito violenze; sembrava essere entrata in quella cisterna da sola, arrampicandosi sul tetto da una scala a pioli al 14esimo piano. Non aveva senso: a meno di non accettare che qualcuno, qualcosa, che nessun altro era in grado di vedere la stesse seguendo, spingendola a cercare un posto in cui nascondersi. E, forse, era proprio così. I detective scoprirono che Elisa aveva un disturbo bipolare; aveva parlato sul blog della sua depressione ma visto che nelle ultime settimane si sentiva meglio, aveva smesso di prendere le sue medicine. Questo potrebbe averle causato delle vere crisi psicotiche. Ed era da questo che forse stava scappando in quel video: dalle voci che sentiva. Dalle cose che vedeva.

Esistono luoghi maledetti? Posti in cui alberga il male, impregnati di energia oscura, che fanno da “cassa di risonanza psichica” per il male? Non lo sappiamo. Sappiamo altre cose, però. Sappiamo che la mente umana è una landa inesplorata. Sappiamo che le malattie mentali sono banalizzate, spesso sottovalutate, non curate, non capite. Sappiamo che il male ha molti volti, e che il più pericoloso è quello che consuma dall’interno, non visto, lasciato libero di spadroneggiare come un fantasma nel lungo corridoio rosso della nostra mente. Quasi auspichiamo la presenza di un mostro nella storia di Elisa Lam, perché la realtà racconta un finale molto più spaventoso: la solitudine di una 21enne incompresa, lasciata morire nell’acqua torbida di interrogativi che non troveranno mai una risposta.