A 30 anni dal Trattato di Maastricht, Ursula von der Leyen si avvicina alla fine del suo mandato. Ma la partita sui migranti è ancora aperta
È un sogno, racconta il mito, a indicare alla principessa libanese Europa il suo destino, quello di sposa di Zeus e madre dei nobili fondatori della civiltà minoica, “primo anello nella catena europea”. Da quel momento il suo nome indicherà le terre a nord del Mar Mediterraneo. Millenni dopo, su quel che resta di un Continente (e di un mondo) distrutto dai bombardamenti e piegato sotto la spinta delle differenze, è forse un sogno a indicare il destino dei popoli che lo abitano, quello di popolo unico, unito. Poi l’esperienza del Muro, ancora una volta, segna la strada, al grido di “niente confini”. Un monito che arriva incessantemente fino a noi, oggi, quando l’Europa, non più principessa ma istituzione, chiede a gran voce un nuovo sogno per il futuro.
Dal 6 al 9 giugno del 2024 oltre 400 milioni di cittadini europei saranno chiamati alle urne per eleggere i membri del Parlamento europeo che si divide tra Strasburgo, sede principale, Bruxelles e Lussemburgo. Un appuntamento fondamentale per il futuro degli abitanti del Vecchio Continente, nonché per una delle istituzioni democratiche più grandi al mondo, come sottolineato anche dall’attuale presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel Discorso sullo stato dell’Unione 2023 pronunciato lo scorso 13 settembre, dal titolo Rispondere alla chiamata della storia. Per gli aventi diritto, ha dichiarato, “sarà il momento di decidere che tipo di futuro e che tipo di Europa vogliono”. «La nostra Unione – ha proseguito, nella sua introduzione – oggi riflette la visione di coloro che sognavano un futuro migliore dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un futuro in cui un’Unione di nazioni, democrazie e persone lavorerebbe insieme per condividere pace e prosperità. Credevano che l’Europa fosse la risposta alla chiamata della storia».
L’avvicinarsi di un appuntamento elettorale sovranazionale che potrebbe, come non, fare da specchio al processo democratico dei 27 Stati membri, poi, segna il ticchettio dell’orologio che gira verso la naturale scadenza del mandato della stessa Von der Leyen, fissata al 31 ottobre 2024, insieme ai primi bilanci dell’operato suo e di tutti i Commissari nonché ai numerosi interrogativi sul futuro della donna più potente d’Europa (e del mondo, stando alla classifica annuale di Forbes del 2022). Le elezioni e il giro di poltrone, inoltre, succederanno a un importante anniversario: il 1° novembre scorso, infatti, ha segnato i primi 30 anni dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, firmato nell’omonima città dei Paesi Bassi il 7 febbraio del 1992, per estensione detto Trattato sull’Unione europea (TUE), e del concetto inedito di cittadinanza europea.
Ma chi davvero è il cittadino d’Europa? Un essere mitologico a due teste, da una parte l’appartenenza al proprio Paese, dall’altra la consapevolezza di far parte di qualcosa – un sogno, forse? – più grande, più forte, più potente. L’europeo dell’Unione europea vive in uno stato di grazia che gli concede numerosi diritti ma scarsi doveri, almeno all’apparenza. Non può essere discriminato per la sua nazionalità in nessuno degli Stati membri, può circolare liberamente da e verso i Ventisette, può rivolgersi alle istituzioni europee, esercitare elettorato attivo e passivo e godere al di fuori dell’UE della protezione consolare non solo del suo Stato ma di ogni Stato appartenente: tutto in funzione di un concetto tanto astratto da risultare difficile da acchiappare, una nozione che “presuppone l’esistenza di un collegamento di natura politica tra i cittadini europei, anche se non si tratta di un rapporto di appartenenza ad un popolo” e “si fonda sul loro impegno reciproco ad aprire le rispettive comunità politiche agli altri cittadini europei e a costruire una nuova forma di solidarietà civica e politica su scala europea” (come affermato dall’avvocato generale Poiares Maduro della Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 30 settembre del 2009 nelle sue conclusioni generali sul caso “Janko Rottman contro Freistaat Bayern” riguardante proprio il legame tra cittadinanza nazionale e cittadinanza dell’Unione, la seconda complemento della prima e non sua sostituta, come stabilito dal Trattato di Amsterdam del 1997).
A fronte di tanti diritti, tuttavia, gli europei non sembrano mostrare particolare riconoscenza, o quantomeno affezione, nei confronti dell’istituzione: nonostante il dato altalenante ma in generale crescita, secondo il sondaggio Standard Eurobarometer del febbraio 2023 meno della metà degli europei prova fiducia nei confronti dell’UE e solo il 62% si dice ottimista sul futuro dell’Unione (nel bimestre giugno-luglio 2022 era il 65%). Anche l’interesse politico scarseggia. Tornando in tema di europee, basti pensare che alle elezioni del 2019 – le ultime a cui hanno partecipato i cittadini del Regno Unito prima della Brexit – l’affluenza si è fermata al 50,97% permettendo però di parlare di “record storico” grazie al tasso più alto dal 1994. Nel 2014, infatti, l’affluenza era stata del 42,61%. I più recenti fatti storici – a partire dalla pandemia di Covid-19 per finire con l’invasione russa ai danni dell’Ucraina -, complice il presunto merito della legislatura capitanata da Von der Leyen di aver rafforzato il senso di appartenenza all’UE, tuttavia, sembrerebbero aver smosso un certo interesse tra la popolazione. Stando alle rilevazioni dell’Eurobarometro di giugno, infatti, il 56% dei cittadini si dice interessato alle questioni europee, con la speranza che questo interesse si traduca in voto.
Lo spera certamente l’attuale maggioranza parlamentare, la cosiddetta “maggioranza Ursula”, formata dal Partito Popolare Europeo (PPE) di Manfred Weber e di cui fa parte la politica tedesca, dall’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) di Iratxe García Pérez e da Renew Europe – composto da ALDE e PDE – guidato da Stéphane Séjourné. Secondo un sondaggio di Europe Elects dello scorso agosto, il trio sembra reggere bene in vista delle urne ma le speranze dovranno fare i conti con la sindrome della “fuga dalle urne” che sembra aver contagiato le istituzioni europee quanto quelle nazionali (anche se qualche analista ravvisa un certo riavvicinamento da parte dei giovani, forse più idealisti e meno cinici dei connazionali più agée). Resta, in caso di vittoria, il nodo sul successore di Ursula von der Leyen. Al contrario di quanto molti si aspettavano, infatti, durante il suo discorso dello scorso settembre la presidente non ha esplicitamente sciolto la riserva su una sua eventuale corsa per il secondo mandato ma ha pattinato tra tutte le posizioni, cercando di non scontentare nessuno, lasciandosi così aperta la porta dei consensi senza tuttavia legare il suo nome allo Spitzenkandidaten. È certo che non si siederà in Europarlamento – in quanto non si presenterà nel suo collegio elettorale, la Bassa Sassonia – ma non ha ancora scoperto le sue carte. “Credo che verso la fine dell’anno o all’inizio del prossimo anno prenderò una decisione”, accenna laconica in un’intervista a settembre, ma è ormai chiaro che ha un piano B: da ferrea atlantista, c’è chi la vorrebbe o la vedrebbe alla guida della NATO (altro sottoprodotto della Seconda Guerra Mondiale), succedendo così all’attuale Segretario generale Jens Stoltenberg il cui mandato è ora in scadenza al 1° ottobre 2024 dopo l’ennesima proroga arrivata lo scorso luglio, con il merito di aver preservato “l’unità transatlantica di fronte a sfide di sicurezza senza precedenti”, aka uno scenario geopolitico alquanto turbolento.
Che l’ex ministra tedesca decida, scelga o venga scelta per proseguire l’operato di NATO o UE (nel primo caso il suo rivale sembra essere l’italiano Mario Draghi – curriculum: ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente della Banca centrale europea, ex Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana -; nel secondo non sembrano esserci al momento “figure di alto livello per il ruolo”, come ammettono i socialisti europei), ora Von der Leyen si ritrova con meno di 300 giorni per “finire i lavori che i cittadini ci hanno affidato”. Il suo discorso, bilancio e al tempo stesso programma, ha toccato tutti i grandi punti del suo operato così come tutte le “partite aperte”, come il Nuovo Patto su migrazione e asilo.
Von der Leyen, infatti, si dice fermamente convinta che “la migrazione debba essere gestita” con “partner chiave”, “unità all’interno dell’Unione”, proteggendo confini e persone, in equilibrio “tra sovranità e solidarietà. Tra sicurezza e umanità”. Ben vengano dunque le “soluzioni pratiche” come la “protezione delle frontiere” e, soprattutto, gli accordi e i partenariati. Fa da esempio il memorandum d’intesa con la Tunisia firmato lo scorso luglio alla presenza della premier italiana Giorgia Meloni e del primo ministro olandese Mark Rutte. Un “modello” per le relazioni con i Paesi del Nordafrica che mira a rafforzare i controlli alle frontiere marittime per ridurre i flussi migratori verso l’Europa ma che nei fatti, sottolineano in molti, mette a serio rischio i diritti dei migranti che si ritroverebbero “bloccati” o “cacciati” da un Paese che negli ultimi tempi ha attuato una politica fortemente ostile sul tema. Del resto mezzo Europarlamento ha criticato la presidente per aver firmato “un patto con il diavolo”, lo stesso diavolo – Kaïs Saïed – che lo scorso ottobre ha annunciato che Tunisi rifiuterà i fondi Ue per ridurre i flussi migratori perché “la Tunisia, che accetta la cooperazione, non accetta la carità né l’elemosina”. Coscienza confessata o carbone bagnato?
Intanto Von der Leyen si trova ancora alle prese con un Patto sui migranti che PPE ed ECR (Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei) continuano a chiedere a gran voce e lei, dopo l’accordo sulla gestione delle crisi in materia di migrazione e asilo dei migranti raggiunta da Ventisette lo scorso ottobre, promette: «uniti possiamo siglare il Patto prima della fine di questo mandato».
Il tempo scorre, presidente, ma qui il nodo è un altro. Noi abitanti del Belpaese, che nel 1861 eravamo Italia ma non italiani, lo sappiamo: l’europeo è una personalità giuridica, scarsamente una personalità sociale, esiste solo sulla carta ma non si è mai fatto corpo. E a 30 anni dall’entrata in vigore del TUE sembra, ad occhi critici, che il concetto di cittadinanza europea, volta ad annullare la dicotomia noi/loro che aveva causato tanti conflitti, sia servito solo a creare un altro “noi” e un altro “loro”, o meglio molteplici “noi” e molteplici “loro”, da scambiare e trasformare secondo le esigenze del caso, le necessità. Gli ucraini sono “noi”, i migranti dall’Africa sono “loro”; gli israeliani sono “noi”, i siriani restano “loro”.“Il futuro del nostro Continente dipende dalle scelte che facciamo oggi”, dice Von der Leyen in chiusura del suo discorso. E allora, in un’Europa resiliente che ci vuole resilienti, pronti ad andare avanti, che le scelte siano sagge, ponderate, partecipate e soprattutto condivise. Da tutti gli europei per il bene degli europei e, soprattutto, dei non europei. Che gli accordi sull’immigrazione siano fenici: brucino per rinascere. Post fata resurgo.