A Johannesburg Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ridisegnano le mappe del mondo. Per non restare a bocca asciutta, l’Occidente deve prepararsi a spartire la torta

«Signore, abbiamo ospiti a cena. Non li avete invitati e non potete cacciarli. Vi stringerete un po’ a tavola, sperando che le pietanze sfamino tutti». Così la Storia, finora maggiordomo dell’Occidente, introduce nuovi (e vecchi) protagonisti, niente affatto intenzionati a perdersi il banchetto imbandito. Mentre il G7 monopolizza gli sforzi dell’ONU ripetendo imperterrito la filastrocca infiocchettata della supremazia dei valori occidentali, i BRICS – blocco formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – firmano una tappa storica nella riaffermazione mondiale del multilateralismo, riuniti a Johannesburg dal 22 al 24 agosto. E questa volta fanno sul serio.

Più che avallare nuove riflessioni interne, perlopiù ribadite, il summit porta a casa un primo, storico, risultato: l’adesione di Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran (e starebbero bussando alla porta altri 23 Paesi). La tempistica dell’allargamento potrebbe corrispondere al prossimo vertice, nel 2024 in Russia, a Kazan. A quel punto i BRICS e la NATO avrebbero all’incirca lo stesso Pil aggregato, con l’aggiunta che il blocco ex terzomondista vanterebbe anche il 47% della popolazione mondiale e il 42% delle risorse energetiche e petrolifere. Tesoreria a parte, l’allargamento fregia il gruppo anche di due componenti del tutto nuove a questi consessi, una araba e una musulmana. Resta da vedere, ricorda l’ambasciatore Stefano Stefanini, “se e quanto il guadagno in massa ne riduca la già sfuggente coesione”. Questo nuovo formato infatti vanta il merito di costituire una buona rappresentanza dell’alter ego occidentale, con la differenza che internamente non contempla veti né pressioni politiche: il risultato è un agglomerato eterogeneo, che va dalla democrazia populista brasiliana ai comunisti cinesi, dalla teocrazia autoritaria iraniana agli sceicchi arabi, questi ultimi fino a ieri acerrimi nemici. Già in passato era stato proprio lo standing alternativo rispetto all’Alleanza atlantica a fare da collante fra realtà così distanti, con Mosca e Pechino a trascinare gli altri attori che si riservano un’indipendenza opportunistica (un benefit non sempre concesso ai membri del blocco opposto). Basti pensare all’India che non ci pensa due volte ad aderire anche al Quad (gruppo formato da Usa-Giappone-Australia-India), “in funzione apertamente anti-cinese” come spiega ancora Stefanini. L’obiettivo insomma è chiaro: un ordine mondiale multipolare capace di superare la trazione NATO-centrica. Johannesburgs colpisce nella pietra questa promessa, risposta di una consistente parte di mondo “sempre più insofferente verso l’unipolarismo statunitense”, reo secondo Elena Basile, ex ambasciatrice in Svezia e Belgio, di aver “aumentato la cecità e i luoghi comuni, immaginando di poter vincere la sfida con la politica dello struzzo e l’esibizione dei muscoli” anziché prendere parte ad un dialogo in atto da tempo e ormai maturo. Ecco che si ristabiliscono “noti principi delle Nazioni Unite rimasti inapplicati o apertamente contraddetti dal ventennio unipolare e dalla seconda guerra fredda”.

La domanda è se questo filo, lento ma saldo, possa reggere la tenuta come promesso. Secondo Hung Tran del GeoEconomics Center infatti i BRICS possono svilupparsi e diventare efficaci se si concentrano su questioni pratiche che potrebbero portare benefici per lo sviluppo ai Paesi in via di sviluppo invece di diventare un forum per la retorica anti-Usa e anti-Occidente”. Altrimenti, si rischia di finire come quelle sinistre eterogenee e litigiose che rimangono unite e compagne solo finché trovano a destra un nemico comune, salvo poi accorgersi che non si piacevano nemmeno fra di loro e ritrovarsi incapaci nell’azione. Eppure, lo dice chiaramente la filosofa del populismo di sinistra Chantal Mouffe, “per costruire un noi, occorre distinguerlo da un loro”: è la grande sfida della politica democratica globale, non in contraddizione ma anzi propedeutica ad un vero pluralismo delle Nazioni. A smentire la trappola implicita di questo antagonismo ci pensa anche Vladimir Putin, in videocollegamento al vertice cui non ha potuto presenziare fisicamente dato il pendente mandato di arresto della CPI: «i BRICS non competono con nessuno, non si oppongono a nessuno, ma è anche ovvio che questo processo oggettivo, il processo di creazione di un nuovo ordine mondiale, ha ancora oppositori inconciliabili che cercano di rallentarlo, per frenare la formazione di nuovi centri indipendenti di sviluppo e influenza nel mondo». Insomma non c’è vero pluralismo senza multipolarità. Lo dice ancora meglio l’ospite sudafricano Cyril Ramaphosa che definisce i BRICS un partenariato paritario tra Paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore”.

Nel frattempo sul dissestato suolo si allunga un’ombra silente ma impossibile da ignorare: Papa Francesco, con fare squisitamente politico, svela a poco a poco la sua strategia. Rispetto alla guerra in Ucraina risuonano incessanti gli appelli alla pace dal balcone di piazza San Pietro, con il cardinale Matteo Maria Zuppi in prima linea al fronte per le trattative diplomatiche. Non basta questo a schermare il Papa dalle accuse di “comunismo” e di “propaganda imperialista”: a puntare il dito è Volodymyr Zelensky che non ha apprezzato il discorso di Jorge Mario Bergoglio alla Giornata della gioventù russa, mentre il Papa ribatte che “la trasmissione della cultura non è mai imperiale, ma è sempre dialogare”. Francesco sa bene che un’istituzione millenaria non può limitarsi alla contingenza di una guerra pur ripudiata, ma deve fare uno sforzo di diplomazia e parlare anche al blocco aggressore se vuole assicurare la sopravvivenza della Chiesa, mentre l’Occidente ormai secolarizzato da tempo non è più il bacino privilegiato: il banco di sardine si è spostato a est e nel sud del mondo, e il pescatore non può che seguirle. E dunque, “la cultura russa è di una tale bellezza che non va cancellata per motivi politici” ricorda il pontefice argentino la cui patria, è, appunto, fra i nuovi ammessi al club dei BRICS. «Nessun ruolo di mediazione per il Papa, è filorusso, non è credibile» lo accusa ancora il consigliere del presidente ucraino Mykhailo Podolyak che punzecchia il Vaticano gettando l’amo sugli investimenti dell’Istituto per le Opere di Religione (IOR)in Russia.

Così, per affermare il loro dominio contro un bipolarismo ormai inadeguato, le potenze percorrono due binari paralleli, gli stessi che fino a oggi hanno marcato il predominio occidentale. Il primo è quello militare: il popolo ucraino viene eletto a vittima sacrificale perché reo di volersi sganciare da un padrone troppo ingombrante per asservirsi al suo storico nemico, mentre la tensione sale alle stelle tra Cina e Taiwan, ormai quotidianamente circondata dai caccia di Pechino che avvisa minacciosa: “non sottovalutateci”. È forse anche per questo che, nonostante promesse di pace e sfoggi di diplomazia, a molti questi focolai sembrano un rogo pronto a divampare più che scintille destinate a spegnersi. La vera lezione appresa dal blocco avverso, però, è che non c’è potere senza soldi. Pur volendo rinnegare uno scenario bellico apocalittico quindi, ad accelerare il motore dei BRICS sarà anche il progetto di una moneta comune che potrebbe chiamarsi R5 in ossequio alle cinque valute BRICS: real, rublo, rupia, renminbi e rand. Già lanciata da Luiz Inácio da Lula come una valuta che favorirebbe gli scambi “senza dipendere da un Paese terzo”, la nuova moneta fa tremare l’economia occidentale. Il pur controverso imprenditore ed esperto di finanza Robert Kiyosaki, che predisse il tracollo di Lehman Brothers, non ha dubbi che “il dollaro sarà fritto” da una nuova valuta lastricata in oro. È chiaro a tutti che una poltrona per due non basta, ma la vera sfida di questo Secolo, più che la spartizione del potere, sarà guidare l’inevitabile transizione verso il multipolarismo percorrendo un processo graduale e pacifico, o quantomeno diplomatico. Ogni strada alternativa sarebbe infausta per tutti.

BOX Dal G20 all’ONU, BRICS al banco di prova

Non dimentichiamo che le prossime presidenze a rotazione del G20 lasceranno la palla ancora ai BRICS, con Brasile e Sudafrica a succedere all’India. Un avvicendamento prodromico che potrebbe anticipare un altro passo verso l’(auto)invito alla stanza dei bottoni: l’ingresso, osteggiato per gelosia anche dall’Italia, di queste tre superpotenze nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU che, se vorrà mantenere una posizione superpartes (posizione per il vero mai avuta), dovrà aprire le porte ad una larga fetta di mondo che oggi ha i requisiti economici, militari e politici per sedere al tavolo insieme ai soliti noti.

BOX 2 – Quali confini? La lezione della Cina

La questione dell’allargamento dei BRICS è comunque paradigmatica di un programma politico ancora acerbo: Brasilia e Nuova Delhi premono infatti per una chiara stesura di regole e requisiti per accedere al club che se pecca di esclusività perde anche di senso. La priorità di Pechino, meno interessata alle questioni ideologiche, è invece quella di ergersi a degno rivale economico del G7. Lo scrivevano anche Stephen Holmes e Ivan Krastev ne La rivolta antiliberale: «la Cina ha una convincente lezione da impartire: si possono ottenere copiosi benefici rifiutando le norme e le istituzioni occidentali e adottando al contempo in modo selettivo le tecnologie e perfino i modelli di consumo occidentali».