A quattro anni dalla rivoluzione, il popolo sudanese non abbandona né piazze né sogni di democrazia
Dalle sponde del Nilo che si snoda come un serpente sotto le finestre delle case basse di Khartoum, il Sudan accarezza il sogno di un tempo nuovo. Le figlie e i figli del fiume hanno versato il loro sangue per la libertà; per ora resta la promessa di un accordo di transizione verso un governo democratico. Una tenue, fragile speranza che sono disposti a difendere fino allo stremo nelle strade.
Luciano Pollichieni, research fellow presso il centro di ricerca multidisciplinare statunitense Critica Research and Analysis, delinea il profilo della condotta del nuovo regime, al di là degli annunci ufficiali: «quello che avevano dichiarato i militari prima del colpo di stato era: “Noi, dopo il golpe, non interveniamo più nella vita politica del Paese”, salvo poi arrestare il primo ministro Abdalla Hamdok – il 25 ottobre del 2020 (ndr) – che in seguito hanno fatto espatriare perché la comunità internazionale non avrebbe tollerato un morto, specialmente se il morto fosse stato quello che ha esercitato de facto la leadership in Sudan per mesi. Da lì in poi i generali hanno deciso di riprendere il potere come se nulla fosse, come ai tempi di Al-Bashir». Bashir, fino al 2019 alla guida di un regime totalitario che si ammantava di echi religiosi, è stato «anche lui un militare il cui governo dittatoriale era basato sulla convergenza tra l’esercito (quindi lui, membro e fautore dell’ala militare del regime) con un’ala islamista, che invece faceva capo a Hasan al-Turabi, l’ormai defunta guida spirituale sudanese; quello che, per inciso, ospitò Bin Laden durante la sua latitanza in Sudan dopo gli attentati in Tanzania negli anni ‘90».
Nel Sudan di questi giorni, il potere ha due volti: Abdel Fattah Burhan e il suo vice Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti). Hemetti non è un uomo qualunque: fino all’accordo con l’esercito, era la guida dei janjawid, i “diavoli a cavallo” responsabili di diverse stragi durante la seconda guerra civile del Sudan, che causò oltre 1,9 milioni di morti, e degli atroci massacri che dal 2003 hanno impregnato di sangue il Darfur. Mastini del regime di al-Bashir, che li ha scatenati in un vero e proprio genocidio in cui hanno massacrato oltre 400 mila persone e causato un milione di profughi in Ciad e altri Paesi limitrofi, oltre al movente religioso i janjawid erano spinti da quello etnico, poiché i sedicenti mujahidin erano prevalentemente di etnia Baggara (un gruppo di tribù nomadi) e attaccarono principalmente le popolazioni stanziali dedite all’agricoltura delle etnie Fur, Zaghawa e Masalit. Ad oggi però le questioni etniche sono passate in secondo piano, spiega Bernardo Venturi, co-funder di Agency for Peacebuiliding: «al di là del conflitto etnico, c’è anche da considerare la cornice della transizione di un intero Paese, in cui sono preponderanti altre variabili come il rapporto tra civili e militari, entro la quale bisognerà capire quanto la transizione riuscirà a essere tale». Anche l’analista di Critica, sul reale avvento della democrazia, è poco convinto: «al di là da quanto assunto in questo accordo, i militari continueranno a rappresentare un’anima politicamente rilevante del Sudan, anche se lo dovranno fare nell’ambito comunque di particolari costrizioni. Quest’anno – spiega Pollichieni – abbiamo visto l’esercito sudanese dare il via a una serie di riavvicinamenti con ex esponenti del regime di al-Bashir – che sono stati reintegrati nei maggiori bacini di consenso dell’opposizione, come ad esempio università e ospedali – dall’altra parte c’è stato un tentativo di riavvicinamento anche con il fronte islamista, perché rappresenta quella legittimità ideologica che ogni regime, per affermarsi, deve avere». Ma, forse, il regime non potrà tornare indietro su tutto. E in questo, secondo Venturi, un ruolo chiave lo giocano le ragazze: «non è più una società in cui le donne hanno un ruolo marginale, ma hanno anzi un ruolo di leadership che, certo, le vecchie generazioni fanno fatica ad accettare, qui come altrove; non si può però tornare indietro, anche perché se sarà un processo civile, inclusivo ed effettivamente facilitato da Unione Africana, Igad e Nazioni Unite, dove il ruolo delle donne è centrale, credo che in futuro ci saranno meccanismi per tutelare un processo che, per come lo vedo, è irreversibile».Inoltre inun’altra prospettiva, come spiega Luciano Pollichieni: «il fatto che perfino i generali siano dovuti arrivare a una forma di accordo con le opposizioni è anche un sintomo della loro debolezza; perché il piano dei militari era fiaccare l’opposizione civile con una repressione permanente di qualsiasi forma di dissenso. Ma a distanza di un anno con il Paese che si deve riprendere dal Covid, gli shock alimentari derivanti dalla crisi in Ucraina – il Sudan pur essendo un Paese dall’enorme potenziale agricolo è afflitto da insicurezza alimentare – e altre scommesse fatte non andate a buon fine (come le vicende della guerra in Etiopia) anche l’esercito ha capito che deve addivenire a più miti consigli». Quello che secondo Pollichieni potrebbe succedere è che l’accordo «durerà, ma non si risolverà necessariamente in una democratizzazione del Sudan, ma in una convivenza necessaria tra queste due anime (quella civile e quella militare) almeno di facciata». Anche perché: «le forze civili al momento sono d’accordo su un punto: non dobbiamo avere militari al potere. Si tratta però di opposizioni che divergono molto su che forma debba avere questo Paese nel futuro».
Non mancano comunque gli scontri etnici e tribali. Emergency, l’organizzazione umanitaria di medicina d’emergenza fondata da Gino Strada nel 1994 è arrivata nel Paese con l’avvento della guerra in Darfur, oggi conta ben quattro centri in Sudan: a Khartoum, a Port Sudan, a Nyala e a Mayo, un grande campo profughi alla periferia della capitale dove metà della popolazione ha meno di 14 anni. Realtà che offrono assistenza medica ai profughi delle diverse guerre, soprattutto bambini alle prese con malattie cardiache dovute alle condizioni sanitarie disastrose. Non solo vittime della guerra, ma anche della crisi: «in Sudan c’è crisi economica, causa di una pesante svalutazione della moneta, e il potere di acquisto della popolazione è crollato. Per noi vuol dire dover aumentare continuamente budget e salari – ci spiega Muhameda Tulumovic, coordinatrice del programma di Emergency che ha curato fino ad oggi 718 mila persone in 33 Paesi*. – Per ora non sappiamo ancora come questo accordo influenzerà il nostro lavoro, sicuramente stiamo registrando, indipendentemente da esso, una richiesta sempre maggiore di documentazione e rapporti da parte del governo sulle attività che svolgiamo. Non sappiamo come effettivamente andranno le cose, prima del colpo di Stato del 2021 si lavorava in maniera un po’ più fluida». A Nyala, in Darfur del sud, ci sono diversi campi profughi dove spesso si consumano scontri etnici, come quelli avvenuti a dicembre 2022: «qui a differenza che in altri centri, dove la platea è più o meno la stessa, stiamo registrando delle presenze che sono sia profughi interni, sia in fuga da Paesi limitrofi: sono il 35/40% dei nostri pazienti. Dopo la caduta del governo precedente ci sono stati diversi scontri, seguiti poi da un periodo di assestamento; di nuovo, dopo il secondo colpo di Stato, si sono verificati degli scontri tribali, sia nell’area del Nilo Blu che del Sud Kordofan e Darfur».
Ora anche gli Stati Uniti sono interessati alla situazione: con la nuova amministrazione di Joe Biden l’America è tornata a interessarsi delle vicende africane. «Non è un caso – sottolinea Pollichieni – che questo accordo venga siglato a pochi giorni dal vertice Usa-Africa che si è tenuto a Washington». Oltre all’interesse umanitario, che sia di facciata o meno, c’è anche da considerare la presenza di due super potenze invise agli Stati Uniti: Pechino e Mosca. La prima è il partner commerciale primario di quasi tutti i Paesi africani, fatto salvo il Marocco che si rivolge piuttosto alla Spagna. Quindi, consolidato il proprio potere economico nel Continente, ha rivolto il suo sguardo anche alla sicurezza. «La Cina ha nominato un inviato speciale per il Corno d’Africa, Xue Bing, che ha lanciato nuove iniziative diplomatiche basate sul soft power. Ha proprio detto “Noi non esportiamo armi, noi esportiamo conoscenze” – una “frecciatina” nemmeno troppo velata agli Stati Uniti – il che ha portato a una maggiore proattività statunitense in quest’area in contrasto alle iniziative cinesi, che in questo momento segnano un po’ il passo: la Cina non può più prestare denaro ai debiti pubblici africani come faceva prima perché sta subendo un rallentamento della propria economia».
Sul fronte russo invece, poco prima della defenestrazione di al-Bashir, Mosca, come ricorda Pollichieni: «aveva un accordo con il governo per la costruzione di una base a Port Sudan, all’imbocco quindi del canale di Suez. Inoltre hanno stretto forti rapporti con l’Eritrea, un inviato del Cremlino si è recato lì nelle ore successive all’invasione dell’Ucraina». D’altronde, è in Africa che da prima dell’invasione ai danni di Kiev la Russia stava facendo le “prove generali”, preparando e addestrando eserciti locali e milizie: «la Russia – spiega Venturi– con vari Paesi africani negli ultimi 8 o 10 anni ha cercato di rafforzare tutta una serie di collaborazioni su questioni militari e di sicurezza. Ha firmato accordi poco conosciuti e tecnici di addestramento militare, e in alcuni (come probabilmente anche in Sudan) è coinvolto il Gruppo Wagner». Per diversi Stati del Continente africano sia le collaborazioni con l’Europa e gli Stati Uniti (in termini ad esempio di cooperazione e aiuti internazionali) sia quelle di tipo militare sono fondamentali. Difficile quindi che uno Stato, come il Sudan, scelga di lasciare un partner a favore di un altro; per questi Paesi insomma l’ipotesi di un “aut-aut”, o Occidente o Russia, non è praticabile. Una “doppia collaborazione” come quella del Sudan però mette in imbarazzo gli Occidentali; quindi: «le collaborazioni della Russia con questi Paesi, Sudan compreso, proseguiranno perché sono a costi limitati (non c’è confronto con quello che ad esempio deve mobilitare in Ucraina) ma le permettono di dare fastidio a Stati Uniti ed Unione Europea, consolidando una zona di influenza e creando loro imbarazzo. Poi bisognerà vedere in che direzione andrà la transizione; ma non mi stupirei se non mancassero collaborazioni di questo tipo anche in futuro».
Non è però solo la Russia l’unico “elemento di imbarazzo” per Unione Europea e Stati Uniti, in Sudan. Qualcuno ricorderà lo scandalo, alla caduta del regime di al-Bashir nel 2019, che rivelò che i fondi dell’Unione Europea spesi per l’esternalizzazione delle frontiere andavano direttamente a beneficio delle Rsf; cioè dei janjawid “post restauro” dopo l’integrazione all’interno delle forze armate sudanesi (una scelta obbligata a cui Hemetti è stato forzato ma che ha cercato di evitare in tutti i modi). Nello specifico con i fondi dell’Emergency trust fund for Africa, stanziati per gestire i flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo Centrale, è stato finanziato un training per le Rsf, organizzato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, parte di un programma da cinque milioni di euro che si propone di migliorare il settore della sicurezza in Sudan. Questo perché le Rsf si occupano anche del pattugliamento dei confini con la Libia e anche con l’Eritrea, dove intercettano i migranti che attraversano il deserto sudanese lungo le rotte dei trafficanti di esseri umani. Sostanzialmente, secondo quanto emerse dall’inchiesta di Der Spiegel, ARD Tagesschau e Trouw, sia l’Unione Europea che l’Onu avrebbero foraggiato e finanziato l’addestramento di gruppi militari responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità. Operazioni che, d’altra parte, ci sono Paesi che non hanno smesso di fare, sostiene Venturi: «l’Italia ha un canale di collaborazione separato dall’Unione Europea, tramite cui lavora con il Sudan (ma più direttamente, con le Rsf di Hemetti) sulle questioni di sicurezza, come ad esempio il terrorismo». In Italia ufficialmente questi accordi dovrebbero essere resi pubblici e discussi in Parlamento, trattandosi di operazioni di coinvolgimento estero; così come pure deve essere ciclicamente presentato un rapporto su quantità e ricavato della vendita di armi a Paesi terzi, la cosiddetta “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito di materiali di armamento” che secondo quanto contenuto nella legge 185 del 1990 deve essere presentata annualmente dal governo ai partiti. Eppure per qualche ragione accade: «che spesso l’impegno italiano in questo senso non si declina a livello di fondi, ma piuttosto come assistenza tecnica; ed è un canale che non emerge in questo tipo di documenti. In più si tratta di questioni che più spesso riguardano il ministero dell’Interno che non gli Esteri». Un po’ come accaduto in passato con la Libia, a cui sono stati forniti equipaggiamenti per il “soccorso in mare” che però, in realtà, sono andati a beneficio di milizie locali. Il tutto per il mantenimento di un basso numero di partenze e con l’alibi della “sicurezza”, quindi in capo al Viminale, non alla Farnesina. «Il supporto insomma c’è – conclude Venturi– l’Italia manda istruttori e armi senza passare dal Parlamento, per coinvolgere le forze di Hemetti che continuano a giocare un ruolo ambiguo nel Paese».
C’è insomma, in questo Paese di sabbia, fango e rabbia, ma anche di speranza, una quiete melliflua, un turbolento immobilismo che dà l’impressione che le cose, anche se sembrano mutare, non cambino nella sostanza. Ogni sera una truppa di mercenari continuerà, indipendentemente da chi siederà nelle istituzioni, a prendere in mano i fucili, salire sui fuoristrada e partire per tendere imboscate alla propria preda: un fiume di uomini e donne che cercano disperatamente il futuro oltre gli altipiani del Sudan, in una terra chiamata Europa. E che si snoda in carovane di speranza e disperazione lungo il deserto, cercando lentamente la via del mare. Come il Nilo del Sudan.
*Errata corrige: Dal 1994 ad oggi, come riferisce Claudia Agrestino (press officer), Emergency ha curato 12 milioni di persone in 20 Paesi