I social come TikTok nell’occhio del ciclone. Abbiamo intervistato Federico Tonioni, direttore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma

Dall’asfissia temporanea allo sgambetto, dal salto dalla cabinovia fino all’amicizia con l’inquietante pupazzo “Jonathan Galindo”. Si parla sempre più diffusamente di istigazione al suicidio, attraverso un gioco, una “challenge” come la definiscono gli adolescenti, in cui si devono superare prove di crescente pericolosità sino ad arrivare a farsi del male. Si tratta di sfide perverse, a volte persino mortali, che stanno prendendo sempre più piede sui social network come Instagram, Facebook, TikTok ed i protagonisti sono soprattutto i più giovani, bambini e adolescenti, che accettano di esserne protagonisti, spesso all’insaputa dei propri genitori. 

Agli albori di tutto troviamo la Blue Whale challenge, proveniente dalla Russia, una serie di sfide che imporrebbero alle giovani vittime atti di autolesionismo. Usiamo il condizionale poiché diverse fonti si riferiscono al gioco come ad una fake news. Pochi dubbi invece sulla Skullbreaker Challenge, la sfida in cui la vittima, con una specie di sgambetto, viene fatta cadere violentemente di schiena, battendo anche la testa, il tutto a sua insaputa mentre gli si chiede semplicemente di saltare. Ci sono poi sfide nate sul momento, come il video diventato virale su TikTok di quattro giovani che saltano nella neve fresca da una cabinovia in movimento. Un pericoloso balzo di svariati metri che ha fatto infuriare il direttore della stazione sciistica grigionese di Grüsch-Danusa (Svizzera). La storia si ripete ma in maniera piuttosto differente con “Jonathan Galindo” un personaggio immaginario riscontrato su TikTok ma anche su Facebook ed Instagram. La challenge prende piede nel momento in cui la persona accetta la richiesta d’amicizia dell’inquietante pupazzo. Dopodiché si viene contattati in privato con una strana proposta. L’utente malvagio a questo punto invia un link che richiede l’accesso ad un gioco che a sua volta prevede sfide e prove di coraggio che raggiungono l’autolesionismo. C’è poi la Bright Eye Challenge, in cui l’individuo viene sfidato a bagnarsi l’occhio con una miscela di candeggina, disinfettante per le mani e schiuma da barba così da alterare momentaneamente il colore dell’iride. O la Blackout Challenge che consiste nel togliersi l’ossigeno stringendo al collo una corda, una sciarpa o una cinta. Secondo alcuni pareri la sfida provocherebbe euforia, il che spinge i più piccoli a provarla, ma nella realtà può causare sensazioni di panico e una perdita di conoscenza con seri danni neurologici, come ha spiegato Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano. Una bambina di 9 anni a Palermo è morta per questa challenge avvenuta su TikTok.

È come se i ragazzi in tutte queste sfide avessero bisogno di dimostrare a sé e agli altri di essere dei vincenti perché non hanno paura di affrontare i propri limiti sfidando addirittura la morte. Ma quella dell’autolesionismo tra i più piccoli, che in alcuni casi porta al suicidio, è una triste realtà che già conosciamo e che i social hanno soltanto reso più evidente.

Ma perché accade tutto questo? Cosa scatta nella mente dei bambini per arrivare a compiere gesti estremi? Come si può invertire la rotta? Lo abbiamo chiesto a Federico Tonioni (nella foto), psichiatra e psicoterapeuta, direttore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma.

Dottore, partiamo dall’inizio. I dati dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù ci dicono che da ottobre ad oggi i tentativi di suicidio ed autolesionismo dei più piccoli sono aumentati del 30%. Mi ha colpito proprio questo dato: da ottobre ad oggi… è un caso o c’è una correlazione con la pandemia?

«Che sia un caso lo escluderei. Facciamo tante statistiche, dobbiamo prenderci la responsabilità di ammettere pure questa: i casi di cui lei parla hanno una stretta correlazione con la seconda fase della pandemia, da settembre in poi, quando i bimbi, che crescono respirando il clima reale che si vive dentro casa, hanno assorbito l’ansia dei genitori che si sono trovati a dover affrontare il perdurare di un’epidemia straordinaria e nuova per tutti. L’angoscia, badiamo bene, non è la paura perché quest’ultima è consapevole, può essere razionalizzata e quindi anche evitata attraverso dei meccanismi di difesa. L’angoscia è inconsapevole e viene da un pericolo che non conosciamo. è struttura dei sintomi che in questo caso sono di ipocondria, di paranoia, di isolamento, di diffidenza verso l’altro. Ecco, il bambino ha vissuto e vive tutt’ora questo corredo di sintomi che sono l’opposto di ciò di cui lui ha bisogno. I più piccoli vivono di relazioni ma non perché vogliono divertirsi, non è bisogno ludico, bensì fisiologico: la loro identità si forma così, attraverso le relazioni, il gioco, la creatività ed il confronto con l’altro. Laddove tutto questo viene a mancare ed il bambino respira solo ansia ed angoscia, è ovvio che si ammala. è bene dire però che la tendenza all’autolesionismo va sempre presa con le molle. A parer mio gli incidenti che sono accaduti su TikTok non sono supportati da un’ intenzionalità suicidaria consapevole. Io non ho mai conosciuto un bimbo che volesse togliersi la vita. C’è stato un eccesso di gioco dovuto alla volontà di non impazzire dentro casa per noia. Stare tanto tempo sui social per loro rappresenta al momento l’unica relazione possibile ma così c’è più possibilità che incappino in quelle famose challenge, ovvero sfide perverse, di cui oggi tanto si parla».

– A proposito di questo, perché secondo lei nasce il bisogno di sfidarsi e soprattutto di “pubblicizzare” l’evento? Cosa c’è dietro?

«Le vittime purtroppo sono bambini ed adolescenti che vogliono fare bella figura nelle challange perché sono quelli che hanno problemi di autostima e, alzando la famosa asticella, cercano di compensare questa mancanza. Badiamo bene che l’autostima non si calibra in base alle performance scolastiche o sportive ma dipende dall’amore incondizionato che si riceve, anche quando si deludono le aspettative del genitore. È quando il bambino fallisce che deve sentirsi amato più che negli altri casi. Accettare le proprie fragilità e quelle degli altri vuol dire aprirsi alla tenerezza che nella vita conta più dei soldi e del successo. Il fatto di dover per forza raggiungere dei risultati per essere accettati, senza mai chiedersi quale sia il prezzo da pagare, è un’altra follia di questa società. I bambini vanno considerati alla stregua delle persone anziane o dei portatori di patologie, insomma categorie a rischio da salvaguardare».

– Cosa possono fare i genitori per evitare situazioni di pericolo sui social?

«Instaurare un rapporto di fiducia e di intimità con il proprio figlio che permetta di avere un dialogo aperto. Ci sono tanti casi di bambini che si trovano in queste gare pericolose, vanno dalla mamma, confessano tutto e finisce il rischio. La percentuale delle sfide che si trasformano in tragedia è veramente minima. Bisogna avere più fiducia nei nostri ragazzi perché il controllo li fa impazzire e molto spesso comporta chiusura. E, parliamoci francamente, il ragazzo che ti vuole fregare ci mette un secondo a farlo, soprattutto se si sente controllato. Quello che poi dovrebbe fare un genitore è evitare che il proprio figlio accumuli rabbia, in modo da risolvere il problema a monte. Ma le relazioni con gli adolescenti sono complesse e solo gli illusi possono credere di non fare fatica quando hanno in casa un figlio di 13-14 anni».

– E cosa mi dice dei campanelli d’allarme che possono aiutare il genitore a prevenire questi fenomeni?

«I cosiddetti bambini buoni, quelli tranquilli, che non creano mai problemi, che non dicono mai una bugia, che non si arrabbiano e che si adattano all’ambiente senza fiatare, sono in realtà quelli più in difficoltà, a rischio. I bimbi sono esseri vitali, hanno diritto anche ad essere tiranni, a sentirsi al centro del mondo. Non è narcisismo ma fisiologia della mente. Il bimbo ha diritto a sentirsi un piccolo padrone del mondo per un certo periodo della sua vita e se questo non accade cominciano i problemi».

– Secondo lei la DAD, e quindi la mancanza della scuola in presenza, può aver contribuito in qualche modo all’aumento del fenomeno delle challenge e ai casi di suicidio in generale tra i bambini?

«No, la DAD ha messo in luce il fatto che abbiamo un sistema scolastico un po’ medioevale. Dal mio punto di visto bisogna utilizzare tablet e non zaini o trolley con dentro 15-20kg di carta, tante volte anche inutile. I bambini sono abituati al linguaggio visivo e con la DAD non hanno avuto problemi. Semmai la didattica a distanza ha messo in difficoltà gli insegnanti, abituati ad usare solo le parole. Ma proprio perché i bambini hanno un profilo cognitivo diverso rispetto agli adulti, la didattica andrebbe completamente rivista dando priorità al linguaggio per immagine, rispetto alle parole. Finché non viene fatto questo prevarrà la noia»

– Il fatto che TikTok abbia vietato recentemente l’utilizzo della piattaforma agli under 13 potrà migliorare la situazione?

«Sicuramente è un primo passo, ma non è la soluzione. È il bambino stesso che inserisce la data di nascita per cui l’ostacolo è facilmente superabile. Secondo me sarebbe opportuno andare verso la costituzione di una identità digitale dove rimane il diritto all’anonimato senza la possibilità di crearsi un profilo falso, da cui scaturiscono complicazioni, patologie e tragedie. Non si capisce perché se giro per le strade devo portare con me un documento di riconoscimento, mentre se sono sul web posso cambiare nome con estrema facilità. Ricordiamoci che ormai il virtuale è reale esattamente come ciò che viviamo dal vivo».