Con le dimissioni dell’ennesimo rappresentante ONU si allontanano ancora le elezioni, in un Paese diviso a metà e incapace di riconoscersi

Una sfida per gli amanti della cartografia, un rebus finora irrisolvibile per la diplomazia: il puzzle libico ha perso un’altra occasione per dimostrare di fare sul serio. Il 16 aprile si è infatti dimesso il rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite in Libia, il senegalese Abdoulaye Bathily. Si tratta dell’ottavo rappresentante dell’ONU che rimette il mandato di ricucire il Paese, laceratosi 23 anni fa con la caduta di Muhammar Gheddafi e da allora mai guarito.

I primi a pagare le conseguenze di questo stantio processo di mediazione sono i 7 milioni di cittadini libici ancora oggi deprivati di una guida politica unitaria capace di trarre il Paese fuori dal baratro economico e umanitario in cui è impantanato da anni. L’instabilità nel Paese, come è ormai noto, è però soprattutto un “affare mediterraneo”, con importantissime ripercussioni per l’Italia e per l’intero bacino. Perché dunque il puzzle è così difficile da risolvere? Procedendo a ritroso, partiamo con la situazione odierna.

Porto di Hariga nella città di Tobruk (EPA/STR)

Chi governa oggi in Libia?

La mappa odierna della Libia è divisa in due macro-aree, distinte fra loro e costellate di zone grigie in cui il potere ufficiale lascia spazio al controllo territoriale e militare di tribù locali e gruppi etnici. Nella Cirenaica, la zona orientale con Tobruk e Bengasi, si trova il Governo di Stabilità Nazionale (GSN) del generale Khalifa Haftar, comandante in capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl). Il GSN, dotato di una Camera dei rappresentanti, è guidato dal primo ministro Osama Hammad e trova il sostegno internazionale di Egitto e Arabia Saudita, nonché, anche se meno apertamente, dalla Russia.

Nella Tripolitania invece, la parte occidentale, si trova il Governo di Unità Nazionale (GUN) del primo ministro Abdul Hamid al-Dbeibah. Con sede a Tripoli dove si trova anche l’Alto Consiglio di Stato, il Senato libico, questo Governo è sostenuto dall’ONU e trova l’appoggio della Turchia e del Qatar.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni riceve a palazzo Chigi il premier del governo di unità nazionale della Libia ad interim Abdul Hamid Dbeibah (ANSA/ UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI/ FILIPPO ATTILI)

Libia: storia di un’indipendenza iniziata male

Se un’estrema sintesi è obbligatoria, qualche cenno storico è necessario per meglio inquadrare lo status politico attuale della Libia.

L’indipendenza dello Stato libico risale al 1949 quando una risoluzione ONU sancisce la creazione di uno Stato “indipendente e sovrano che comprende Cirenaica, Tripolitania e Fezzan“. Le tre regioni erano state unificate per la prima volta proprio sotto il dominio italiano, durato per quasi 40 anni prima di lasciare il posto agli Alleati. Con la fine della guerra, il Regno Unito e la Francia ottengono in gestione fiduciaria la Tripolitania e la Cirenaica (Londra) e il Fezzan (Parigi). La transizione verso l’indipendenza si completa nel 1951, quando re Idris al-Sanusi proclama il Regno Unito di Libia, una monarchia ereditaria e costituzionale.

Il futuro del Paese è segnato nelle prime ore di vita dello Stato libico quando, negli anni ’50, cominciano a scoprirsi i primi giacimenti di petrolio, una ricchezza posta immediatamente appannaggio delle potenze straniere. Nel 1955 infatti la Libia sigla un accordo che consente ai colossi petroliferi di estrarre l’oro nero garantendo al Governo il 50% dei profitti. Questo, insieme a un sistema di istituzioni pubbliche ancora troppo poco indipendenti dal giogo straniero, si presenta fin da subito come un ostacolo non solo alla sovranità, ma anche alla creazione di una coscienza collettiva nel Paese dove “l’appartenenza a una tribù era, ed è ancora oggi, molto più importante di ogni segno identitario nazionalecome scrive Mauro Indelicato. La terra è ricca ma la redistribuzione dei suoi frutti è corrotta, e così non passa molto tempo prima che un gruppo di militari ispirati dal panarabismo del nuovo faro socialista dell’egiziano Nasser prenda il potere.

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Cittadini festeggiano l’anniversario dell’indipendenza della Libia (ANSA/EPA/STR)

Nel 1969 l’esercito libico rovescia re Idris. Tra le fila dei miliziani si distingue subito un giovane di 27 anni, nato in un’oasi alle porte di Sirte: è l’autoproclamatosi colonnello Muhammar Gheddafi che, preso immediatamente il potere, non lo lascerà fino alla sua morte nel 2011. Durante i suoi 42 anni al potere Gheddafi, che si erge a erede del panarabismo nasseriano, portava avanti una politica di forte nazionalizzazione, dotando il Paese di infrastrutture e criticando apertamente l’ONU e la comunità internazionale nel nome del panafricanismo. È con l’arrivo delle primavere arabe, nel 2011, che il suo potere comincia a scricchiolare e, in pochi mesi, capitola. Il governo di Gheddafi opera una durissima repressione contro i civili libici che prendono parte alle proteste, suscitando lo sdegno internazionale e dunque l’intervento delle Nazioni Unite, Francia e Stati Uniti in primis. Il nuovo interlocutore della comunità internazionale è il Consiglio Nazionale di Transizione, i cui ribelli catturano e uccidono Gheddafi (si perdoni, anche qui, l’estrema sintesi richiesta).

È così che si apre il lungo periodo di transizione che in effetti non si è mai concluso. Pur cruciale nella crescita dello Stato libico, Gheddafi aveva rincorso un ideale di democrazia diretta, senza mediazione di partiti, associazioni o corpi intermedi, capace di dar voce direttamente alle masse. Ad essere impreparate erano proprio le masse che, senza riconoscersi in una struttura statale solida e identitaria, dopo la morte del loro leader danno il via ad una guerra civile mai risolta.

Il primo incontro tra Silvio Berlusconi e il Muhammar Gheddafi, 28 ottobre 2002 (FILIPPO MONTEFORTE/ANSA)

La Libia dopo Gheddafi

Dalla caduta del colonnello, la Libia è riuscita a organizzare una sola elezione presidenziale, nel 2012, quando la fazione dei liberali, l’Alleanza delle Forze Nazionali, vince contro il partito islamista moderato Giustizia e Costruzione. L’assenza di un accordo politico fra le parti e l’ISIS, che fa capolino poco dopo la morte di Gheddafi, costringono il Paese ad altre incursioni militari internazionali, destinate per combattere il Daesh prima e l’instabilità politica poi.

È così che si traccia la linea di demarcazione più netta, quella che odiernamente separa i territori orientali del generale Haftar da quelli occidentali onusiani. La bipartizione libica risale al 2014 quando la seconda guerra civile manca l’obiettivo di riunificare il Paese sotto un solo leader. Non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo fallimento di un progetto che ancora oggi resta scritto sulla carta delle buone intenzioni. All’epoca tre potenze si contendono il territorio (al netto di milizie locali e tribù che tutt’oggi reclamano i loro diritti su questa terra): il Governo dell’eletto generale Haftar, nell’area orientale di Tobruk dove governa ancora oggi, il Governo di Accordo Nazionale, voluto dall’ONU e insediatosi nella parte occidentale di Tripoli, e l’Isis che dopo aver barbaramente conquistato Derna, Sirte e altri insediamenti viene definitivamente cacciato dal Paese nel 2016.

Khalifa Haftar (EPA/YANNIS KOLESIDIS)

Nel tempo, innumerevoli tentativi diplomatici si sono rincorsi a vuoto, da ultimo il viaggio del predecessore del cirenaico Hammad, l’ex premier Fathi Bashagha che nel 2022 aveva tentato di entrare a Tripoli, innescando una serie di scontri armati fra le milizie locali. In quel caso si rese evidente “ancora una volta come a decidere del destino libico siano più gli attori non statali, come le milizie per l’appunto, e non la classe politica dirigente che gode di una scarsa legittimità popolare rispetto anche ai primicome spiega il Centro Studi Internazionali.

Tornando a oggi: le sfide attuali

Consegnando le proprie dimissioni a Guterres, Bathily ha puntato il dito contro le troppe “interferenze straniere” colpevoli di rallentare ulteriormente i processi interni di pacificazione. Pur senza fare nomi, il rappresentante ONU si riferisce quantomeno al ruolo di Egitto, Emirati Arabi, Turchia, ma anche Russia. Come abbiamo già osservato in altre aree dello scacchiere africano, Mosca presenzia in una forma ibrida attraverso il dispiegamento di truppe Wagner sul territorio libico. Già dal 2017 Haftar aveva siglato un accordo di cooperazione con la Russia, che però si fece mettere i bastoni tra le ruote dalla Turchia che, intervenendo in favore del Governo di Tripoli, aveva impedito che si replicasse quanto avvenuto in Siria. Una carta geopolitica di Limes del 2021 segnala la presenza di contractors russi in diverse zone della parte orientale della Libia, in particolare nella costa settentrionale dove si trovano le principali città (Tobruk, Derna, Bengasi, Sirte fra le altre) ma anche nell’area meridionale del Fezzan, contesa con le milizie Tubu e Tuareg e i gruppi armati del figlio di Haftar che opera nell’area per sfruttare i traffici di migranti e le risorse naturali.

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La già citata Turchia ha scelto da che parte stare e ha dato il via alle danze, senza attendere un riconoscimento internazionale univoco che doveva necessariamente passare per le urne. Ankara sostiene e riconosce il Governo di Tripoli con cui ha già stilato anche degli accordi per sfruttare i giacimenti di gas nel mediterraneo orientale. Quanto all’Egitto, la sua influenza politica da superpotenza araba nella regione ha portato ad un inevitabile muro contro muro, con Il Cairo che si è sempre opposto ad una mediazione totalmente esterna raccogliendo anche il favore dell’Occidente.

E l’Italia? Roma è il primo partner commerciale della Libia, con cui stringe affari per 12 miliardi di euro; la prima compagnia straniera libica è l’Eni che, approdata nel 1959, non ha mai abbandonato il Paese. Questo, si capisce, impedisce alla nostra politica di scegliere un solo interlocutore e sbattere la porta in faccia all’altro. Se quindi la linea ufficiale dell’Italia è quella dei suoi alleati atlantici e la porta a stringere la mano di Dbeibeh, sul campo si allacciano buoni rapporti con tutti. Si fanno affari con la compagnia petrolifera di stato libica (National Oil Corporation), di proprietà di un uomo vicino ad Haftar come Farhat Bengdara, e si incontra lo stesso generale, ormai interlocutore obbligato per chiunque abbia interessi nel Paese. Oltre a giocare un’importante partita di equilibrio riguardo la penetrazione della Russia in Africa, Haftar gestisce infatti le aree della costa orientale libica da cui, con ripetute ondate, si susseguono i flussi migratori.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli incontrano a Bengasi il generale Khalifa Belqasim Haftar, 12 marzo 2024 (ANSA/UFFICIO STAMPA VIMINALE)

La Libia, denuncia Bathily prima di rimettere l’incarico, “è diventata un campo di battaglia”, vittima di una “continua lotta per il territorio” che coinvolge forze di sicurezza libiche ma anche di altri Paesi. Le sue dimissioni smentiscono anche la Lega Araba che, poco più di un mese fa, dichiarava che nel Paese si fosse trovato un accordo sulla necessità di elezioni libere per individuare un Governo unico. Quanto ai soggetti politici preposti alla mediazione, l’incaricato ONU denuncia “resistenza ostinata, aspettative irragionevoli e indifferenza” da parte della autorità. Lo scettro è ora passato nelle mani della statunitense Stephanie Khoury, già vice rappresentante speciale per gli affari politici per la Libia. «Koury rimarrà ad interim per evitare un voto in Consiglio di Sicurezza, che come sappiamo sarà osteggiato dalla Russia – osserva Jalel Harchaoui, specialista di Libia per il Royal United Service Institute. – E così, alla fine, gli Stati Uniti saranno riusciti a sostituire Bathily con un diplomatico americano, che fa loro molto più comodo».

di: Marianna MANCINI

FOTO: ANSA/EPA/STR

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