Passato e presente di uno sport che appassiona gli italiani e li vede vincitori. Una disciplina per tutti?

Italiani popolo di sportivi? Sicuramente ne parlano, lo seguono, lo tifano, ma non è così scontato che lo pratichino. Già nel 2018 le rilevazioni dell’Eurobarometro in merito a sport e attività fisica davano l’Italia agli ultimi posti in Europa per numero di cittadini che praticano attività sportiva (uno su quattro contro una media europea del 60%). Oggi, secondo le schede informative per il 2021 pubblicate sul sito della Commissione europea lo scorso 13 ottobre, come attività di monitoraggio sulle politiche HEPA (“health-enhancing physical activity”) raccomandate dall’OMS, in Italia solo il 48% della popolazione adulta tra i 18 e i 64 anni pratica attività sportiva a livelli sufficienti. Un dato che cala drasticamente nella fascia adolescenziale (il 6,8% dei 15enni) e in modo meno grave nella fascia over 64 (32,8%).

Questi numeri sono un chiaro indice di come la tendenza alla sedentarietà e, al contrario, al movimento degli italiani sia sempre altalenante. Un trend che, di certo, la pandemia, con le sue restrizioni, le sue riaperture, le sue ondate, ha nutrito. Tra chi ha deciso di rimettersi in forma durante i primi mesi di reclusione e chi, invece, si è dato alla pigrizia, con la complicità dello smart working; chi ha sfruttato la palestra per tornare alla normalità dopo il via libera del Governo e chi, invece, ha voluto riassaporare la libertà in tutt’altro modo.

Una cosa però rimane certa: quando gli italiani si impegnano, i successi arrivano. E questo 2021 ne è sicuramente una prova. In tema di sport, infatti, il Belpaese può sicuramente vantare, oggi come ieri, numerose stelle da podio e alcuni dei più grandi campioni di tutti i tempi: dal calcio (che quest’estate l’ha fatta da padrone grazie alla vittoria della Nazionale agli Europei 2020 organizzati dalla UEFA) alle grandi prove durante le Olimpiadi di Tokyo 2020 in cui l’Italia ha battuto il suo record di podi con 40 medaglie.

Tra tutte, una delle discipline che quest’anno sta vivendo un nuovo periodo d’oro, una sorta di Rinascimento, dal punto di vista degli atleti e degli spettatori, sembra essere quella del tennis.

Chiunque pensi alle vecchie stelle del tennis italiano torna sicuramente con la mente agli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Come dimenticare la Coppa Davis del 1976? La finale del torneo, giocata allo Stadio Nazionale di Santiago del Cile, vide trionfare i tre azzurri Corrado Barazzutti, Andrea Panatta e Paolo Bertolucci nelle categorie singolo e doppio. Un exploit tricolore che non fu solo sportivo ma anche politico. La partecipazione della squadra italiana alla finale nel Paese di Pinochet aveva ricevuto numerose contestazioni da gruppi politici e connazionali. Dopo che la Federazione italiana tennis diede l’approvazione per la partecipazione alla finale, passarono alla storia le parole di Panatta quando propose al compagno Bertolucci di giocare la finale di doppio indossando le maglie rosse, in omaggio alle vittime della repressione del regime. E proprio Panatta è forse il tennista tricolore per eccellenza, colui che al pari di altri in altre discipline, ha fatto appassionare gli italiani a questo sport. Il suo scaffale di successi conta l’unica vittoria italiana ad un torneo Slam in era Open, il Roland Garros nel 1976 – quando Panatta raggiunse la quarta posizione nel ranking Atp – e l’ultima agli Internazionali di Roma nello stesso anno. In territorio americano, invece, fu Barazzutti il primo italiano, e per molto tempo anche l’ultimo prima dell’arrivo di Matteo Berrettini nel 2019, a raggiungere la semifinale degli Us Open, nel 1977. L’anno dopo ottenne lo stesso risultato al Roland Garros

Tra i grandi del tennis passato non si può non nominare anche Nicola Pietrangeli. Apparso per la prima volta sui campi nel 1952 a soli 18 anni, il tennista di nascita tunisina ha vissuto quegli anni a cavallo della grande rivoluzione del tennis internazionale, l’inizio dell’era Open nel 1968. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta vive il suo periodo di maggiore successo aggiudicandosi il primo titolo italiano al Roland Garros (dopo saranno solo Panatta e Francesca Schiavone) nel 1959, raggiungendo le semifinali di Wimbledon nel 1960 e sfiorando l’oro in doppio alla Coppa Davis con Orlando Sirola quello stesso anno e il successivo. Traguardo che invece raggiungerà come capitano non giocatore della Nazionale italiana nel 1976, insieme ai già citati tre atleti a Santiago del Cile.

E d’oro come quella medaglia torna ad essere il presente tennistico. Nel corso di questo 2021, infatti, il già citato Matteo Berrettini, dopo aver infranto il record di Barazzutti, ha battuto anche Pietrangeli scrivendo una nuova pagina della storia sportiva italiana. Il tennista romano di soli 25 anni, infatti, lo scorso 9 luglio è entrato negli annali come il primo azzurro a qualificarsi per la finale del torneo inglese dello Slam di Wimbledon. L’11 luglio successivo poi, sull’erba del Centre Court, nulla ha potuto contro la forza e il talento del numero uno al mondo, Novak Djokovic, ma quella medaglia d’argento che gli abbiamo visto al collo è stata per l’Italia intera una soddisfazione troppo grande per poterla contenere. E, di certo, una forte promessa per il futuro.

Il successo di Berrettini ha consolidato un trend positivo per il tennis italiano che già nell’ultimo ventennio ha acquisito di nuovo grande popolarità. Nel corso di quest’anno a premiare il talento italiano ci avevano già pensato gli aggiornamenti della classifica dei 100 migliori giocatori professionisti maschili stilata dalla Atp. A marzo gli azzurri nel ranking erano 9, ed era già un record, ad aprile sono diventati 10: Matteo Berrettini, Fabio Fognini, Jannik Sinner, Lorenzo Sonego, Stefano Travaglia, Salvatore Caruso, Marco Cecchinato, Lorenzo Musetti, Gianluca Mager e Andreas Seppi. In tempi più recenti, ad inizio novembre, l’Italia ha infranto un altro primato con ben due atleti in top 10: a far compagnia a Berrettini, stabile nella top 10, ci ha pensato Sinner conquistandosi anche il titolo di quarto più giovane tennista ad entrare nell’Olimpo, dopo Nadal, Djokovic e Murray.

E non solo: Sinner, insieme al connazionale Musetti, è anche uno dei due giocatori più giovani dell’intera classifica, oltre che tra i nomi più promettenti della next generation.

Altoatesino, classe 2001: Sinner ha iniziato a sbaragliare tutti i record del tennis italiano quando nel novembre 2020 ha vinto a Sofia il suo primo titolo in un torneo Atp nell’era Open. Nel 2021 ha continuato a non perdere un colpo passando alla storia come il quarto giocatore al mondo sotto i vent’anni ad arrivare in finale ai Miami Open, lo scorso aprile. Alla sconfitta contro Hubert Hurkacz ha recuperato immediatamente conquistando ben quattro titoli Atp, a Melbourne, Washington, ancora a Sofia e ad Anversa, in una sola stagione (primo italiano a farlo). Ragazzo d’oro, come anche Roger Federer l’ha definito, in soli due anni da professionista Jannik Sinner è riuscito a portare una ventata d’aria nuova sul tennis e possiamo stare certi che la sua carriera è solo ai primi passi.

Anche l’altro giovanissimo, Lorenzo Musetti, il 19enne di Carrara ribattezzato “braccio d’oro” per quel rovescio ad una mano che tanto ricorda Federer,conta una serie di record non da poco: solo nell’ultimo anno si è conquistato il titolo di più giovane tennista italiano ad aver raggiunto gli ottavi di finale di un Master1000, il Miami Open, e la semifinale di un Atp 500, ad Acapulco.

E ancora, in tema Atp, come non accadeva dal 1977 ad aprile tra i top 30 del ranking c’erano quattro italiani. Al posto di Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, questa volta a conquistare la classifica sono stati Matteo Berrettini con il decimo posto (diventato settimo a novembre); seguito da Fabio Fognini 18esima posizione, tennista al centro di alcune critiche ma dal talento indiscutibile, sceso a novembre alla 37esima posizione; il 22esimo posto era occupato dal già citato giovanissimo Sinner, che a fine anno passa all’11esimo posto; chiudeva il gruppo dei quattro, al 28esimo posto, il torinese Lorenzo Sonego, salito di una posizione a mesi di distanza.

Possiamo vantare, dunque, tennisti nostrani non solo di grande successo ma in alcuni casi anche molto giovani. Un risultato che sta facendo nuovamente appassionare le persone comuni a questo sport e, chissà, spingerà molti atleti amatoriali a sognare un futuro nelle classifiche mondiali. «Il traino la fa sempre da padrone» ci conferma Enrico Sellan, Maestro nazionale FIT dal 1994 e attualmente coach insieme a Fabrizio Fanucci – noto per aver allenato campioni come Filippo Volandri e Daniele Bracciali – per la Pro Team 56 di Roma. Come ci racconta lui stesso, ai tempi in cui si è avvicinato al tennis a trainare le iscrizioni alle scuole tennis c’era il mito Panatta. «Avere avuto Berrettini e altri 9 ragazzi tra i primi 100 del mondo sicuramente è un traino per i bambini». Fenomeno a cui la pandemia, e le relative restrizioni per gli sport di contatto, ha certamente contribuito. «C’è stato un boom clamoroso, dovuto soprattutto dalla necessità, che ha avvicinato al tennis molte persone, in particolar modo bambini. Se questo continuerà dopo la fine della pandemia dipenderà dalla bravura dei maestri nel fidelizzare e far appassionare i neofiti a questo bellissimo sport».

E per chi pensa ancora che il tennis sia uno sport riservato alle classi sociali più alte, sappiate che la storia ha dimostrato ben altro. Basti ricordare Manolo Santana, il primo spagnolo a vincere nel 1966 il Torneo di Wimbledon prima dell’era Open. Avvicinatosi al tennis come raccattapalle del Club de Tenis Velazquez, oggi a lui è intitolato il campo principale della Caja Magica di Madrid. O ancora l’australiano Ken Rosewall, considerato uno dei migliori tennisti di sempre, vincitore di quattro Coppe Davis tra gli anni Cinquanta e Settanta, diventato un grande mito grazie all’investimento dei genitori nell’acquisto di tre campi da tennis nel sobborgo di Rockdale. Come non è sempre vero che i campioni abbiano alle spalle un’infanzia da “enfant prodige”. «Quando si parla di campioni spesso si dice che fossero prodigi già da bambini. I nostri campioni di oggi, come Berrettini o Sinner, invece, non erano visti come dei predestinati, sicuramente bravi giocatori ma non fenomeni. Hanno lavorato sodo e sono arrivati dove sono adesso. È un bel messaggio ma, per chi si approccia al tennis, questo non dev’essere caricato, non tutti quelli che lavorano sodo diventano dei campioni. Si tratta di far capire che con l’impegno si arriva dove si può arrivare, al proprio massimo, e questa è già una vittoria» – ci racconta Sellan. E del resto lo stesso Berrettini, subito dopo la finale di Wimbledon, ha dichiarato al Corriere della Sera che da bambino pensava di essere scarso e di aver realizzato di poter fare del tennis il suo lavoro solo nel 2019 quando ha fronteggiato Rafael Nadal durante la semifinale degli Us Open.   

Al di là dell’ambiente di provenienza e del talento da fanciulli, rimane, invece, fuori di dubbio che il tennis sia uno sport costoso. «Dal punto di vista amatoriale non è uno sport per ricchi, anche se ha sicuramente dei costi più alti rispetto ad altre attività sportive. Più si sale di livello, invece, più si spende perché si ha bisogno di maggiori allenamenti, maggiori strutture, figure che devono seguirti come allenatore, mental coach, nutrizionista, fisioterapista e altri. Girare, partecipare ai tornei, ha anche un costo molto elevato. Negli ultimi anni la Federazione si è mossa per dare ai migliori delle agevolazioni ma ovviamente non può coprire tutti. Magari copre i più bravi ma per gli altri le spese sono a loro carico. Un ragazzo di 18/20 anni che muove i primi passi nel mondo professionistico spende circa 15 mila euro l’anno solo per gli allenamenti e altrettanti, se non di più, per partecipare ai tornei». Costi che, d’altro canto, non sempre vengono ripagati dalle vittorie. Negli ultimi anni la polemica intorno ai montepremi dei tornei si è sempre più inasprita, in particolar modo in merito alle differenze di compensi tra uomini e donne ma anche nella distribuzione dei premi all’interno dello stesso torneo. «C’è molta disparità tra il montepremi di chi vince, arriva in finale o semifinale, e chi perde al primo turno o alle qualificazioni. Consideriamo che chi partecipa alle qualificazioni rientra comunque tra i primi 100 giocatori del mondo. Con quel tipo di vincite vanno in pari con le spese di viaggio e di partecipazione, nonostante siano comunque tra i migliori tennisti. Il tennista professionista è in perdita costante, spende tanti soldi prima di arrivare al punto in cui si comincia a guadagnare. Questo accade quando si riesce a rientrare tra i primi 70/80 del mondo, fino ai 110/120 a malapena si è in pari» conclude Sellan.

Prendiamo ad esempio due dei quattro tornei Slam di quest’anno, il Roland Garros e Wimbledon, vinti entrambi dal serbo Djokovic (il numero uno al mondo ha vinto anche l’Australian Open, mancando invece il titolo agli Us Open e vedendosi sfuggire per un soffio il Grande Slam – la vittoria di tutti e quattro i tornei in una sola stagione). La competizione francese ha fatto intascare al campione 1.400.000 euro mentre con quella londinese ne ha guadagnati ben 1.979.979. Al contrario chi si è fermato al primo turno a Parigi ha ricevuto “solo” 60.000 euro, a Londra 55.905. Sempre a Wimbledon, il nostro finalista Berrettini ha vinto 1.048.224 euro ma se si fosse fermato alla semifinale contro il polacco Hubert Hurkacz il montepremi per lui sarebbe stato, invece, di 541.582 euro.

Insomma, un bel divario che spesso non ripaga gli atleti degli sforzi, economici e non, compiuti per partecipare al torneo. Ma d’altro canto si sa: la passione non ha un cartellino con il prezzo e lo sport continua a sfornare campioni, ora più che mai.

di: Alessia MALCAUS

BOX – Tennis vs. Padel: ecco il nuovo fenomeno del momento

Ad ottobre 2021 il numero dei campi da padel ha superato quota 4.000 (4.067 per l’esattezza), neanche tre anni fa (prima della pandemia, dunque, e della rinascita del tennis professionistico e amatoriale) erano appena 600. «Adesso c’è un bel boom – ci conferma Enrico Sellan. – Molti circoli stanno sostituendo i campi da tennis con quelli da padel. È iniziata come una moda ed è diventata uno tsunami, anche perché è facile da praticare».

Ma quali sono le principali differenze rispetto al tennis? La variante, nata in Messico negli anni Settanta, si gioca sempre in doppio in un campo, detto “gabbia”, lungo 10 metri e largo 20 circondato da pareti o cristalli alti al massimo tre metri e diviso da una rete al centro alta 0,88 metri. Un campo da tennis regolamentare, invece, misura 23,77 metri per 8,2 per le partite di singolare e 11 per le partite di doppio. In mano ai giocatori di padel c’è una paletta forata lunga non oltre i 45,5 centimetri e pesante non più di 375 grammi, contro la racchetta di corde di lunghezza massima di 73,66 centimetri e di peso tra i 270 e 370 grammi per il tennis. La palla per le competizioni è, in entrambe le discipline, di colore bianco o giallo e pesa tra i 56 e i 59,4 grammi. Le competizioni di padel, al pari del tennis, si giocano al meglio dei tre set, ad esclusione delle partite maschili del Grande Slam e della Coppa Davis, giocate al meglio dei cinque.