La censura nei nuovi anni ’20. Media, giornalisti, ma anche persone “comuni”: ridotti al silenzio dalle nuove dittature culturali, che vogliono tutti allineati sul politically correct. O quantomeno in modalità “non disturbare”
Radio imbavagliate perché critiche nei confronti dei Governi. Quotidiani obbligati, a volte, a non percorrere la strada che porta alla verità e piattaforme social “congelate” per ore o per giorni, addirittura nei confronti del Presidente degli Stati Uniti d’America.
Sono, en passant, alcuni esempi di quanto sta accadendo da diversi mesi nel mondo. In una sola parola: censura.
E l’ultima in ordine di tempo è quella scattata in un paese europeo. In Ungheria, infatti, il primo Ministro Vicktor Orban ha deciso di sospendere le trasmissioni della frequenza 92.9 ovvero Klubradio. La radio indipendente magiara che, secondo alcuni osservatori, potrebbe pesare negativamente sulla campagna elettorale del Primo Ministro, è stata imbavagliata.
La storia ci ha insegnato che quando c’è poca libertà di espressione la democrazia vacilla: i diritti alla libertà di espressione sono riportati sulle Carte costituzionali di tanti Paesi, nel nostro, ad esempio, l’articolo 21 della Costituzione recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
La libertà di espressione, però, non sembra trovare posto nella società ungherese, almeno secondo alcune mosse del Governo Orban. Trasmissioni sospese, da metà febbraio, per Klubradio, per ordine del Primo Ministro che, secondo i politologi, sta andando sempre più verso il populismo e il nazionalismo. Il motivo della sospensione della licenza alla radio sembra essere pretestuoso: un ritardo di notifica alle autorità governative sui contenuti musicali programmati durante le trasmissioni. Così, dopo vent’ anni di difficile e delicato lavoro di informazione, senza lesinare critiche al Governo, Klubradio – una delle più forti voci dissidenti fra i media ungheresi – ha perso la licenza per andare in onda. Non potrà informare – liberamente – la popolazione, in vista delle elezioni del prossimo anno, e non sarà nemmeno una spina nel fianco del Premier in carica intenzionato ad accaparrarsi un altro mandato.
Il mondo politico europeo si è mobilitato ufficialmente tramite l’Ue che ha chiesto al Governo Orban di consentire le trasmissioni alla radio il cui segnale, fra l’altro, arrivava oramai solo nella Capitale. Ma il Primo Ministro, per ora, sembra voler tirare dritto. E più volte, anche in altri ambiti, Orban ha risposto all’Unione europea che “a casa degli altri non si comanda”. Fra l’altro, una curiosità: il 95 % dei media che operano in Ungheria sono di proprietà o controllati da importanti imprenditori vicino proprio a Vicktor Orban. L’informazione cosiddetta indipendente è ridotta ai minimi termini e quelle poche testate che ci sono non hanno abbastanza forza (share, ascolti o vendite) per fare chiarezza o sostenere un dibattito pubblico.
In molti paesi del mondo l’informazione è ridotta ai minimi termini ed i governi non danno la possibilità di accedere ad internet liberamente. La Cina è, forse, il più emblematico Paese, insieme alla Korea del Nord, dove la censura è presente anche nell’uso delle reti telematiche interconnesse. Ma, secondo un recente report di Copmaritch, sono ben 150 gli Stati che attuano una censura su internet, dopo averla messa in atto anche su radio, televisioni e giornali. Se in Cina non si scherza, durissimo è il diktat di un’altra superpotenza all’ombra del Cremlino.
Il caso di Aleksei Naval’ny, blogger russo, salvato da un avvelenamento e poi finito nelle patrie galere più volte per aver criticato il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, è un esempio di censura.
Ma anche nel cosiddetto “mondo libero” – gli Usa – c’è chi ha gridato allo scandalo vedendo addirittura il principio della fine della democrazia quando il 45mo presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, è stato censurato (“bannato” secondo un termine next generation) prima da Twitter poi da Facebook. L’ex “Comandante in capo”, come viene anche chiamato il numero uno della Casa Bianca, è stato pure bloccato in alcune occasioni dalle tv nazionali mentre stava contestando presunti brogli durante le elezioni che hanno portato alla stanza ovale l’avversario, Joe Biden.
A memoria d’uomo non si ricorda un “oltraggio” del genere da parte dei media ai danni di un presidente americano. Trump, in diverse occasioni prima del passaggio di consegne della Presidenza, tramite Twitter aveva incitato la popolazione alla rivolta per contestare gravi irregolarità nel calcolo dei voti a sfavore del proprio partito. L’ invito all’insurrezione a Capitol Hill, fatto da Trump, aveva causato morti e feriti sia tra le forze dell’ordine sia fra la popolazione in quel momento “rivoltosa”.
Gli storici, per la censura subita dal Tycoon, non si scandalizzano: sostengono che ogni social ha le sue regole e se non si rispettano anche il Presidente degli Stati Uniti può essere “bannato”, bloccato come un qualsiasi iscritto che non usa le parole in maniera adeguata seppur solo per protestare. Ma si potrebbe anche essere più tranchant degli storici, declinando una dichiarazione di Winston Churchill: “Dove c’è molta libertà di parola c’è sempre una certa quantità di discorsi sciocchi”.
Una vera e propria censura, definita però “revisione”, si è abbattuta anche su alcuni cartoni animati della Walt Disney. E non sono pochi i titoli messi all’indice da una parte di pubblico. Cartoons, dicevamo, come: “Dumbo”, dove ci si prenderebbe gioco della schiavitù; “Peter Pan” accusato di aver chiamato i nativi d’America con un termine razzista, “pellerossa”. E che dire della condanna sugli “Aristogatti” e “Lilly e il Vagabondo”? Alcune scene offenderebbero le popolazioni asiatiche per i tratti somatici accentuati, nel primo cartone animato, mentre nel secondo due gatti siamesi sarebbero anti-latinos e anti-asiatici. Secondo il colosso americano alcuni concetti all’interno di questi film di animazione avrebbero accenti marcati riguardo alle differenze di razza e cultura con conseguenti messaggi offensivi, per questo la Walt Disney ha inserito il divieto di visione per i bimbi al di sotto dei sette anni.
Si può parlare di censura anche usando il termine, da tempo di moda, del “politically correct” in alcuni film e capolavori, incastonati – è il caso ricordarlo – nel loro tempo e nella cultura del momento. “Via col vento” (1939), ad esempio o “Grease” (1978 ambientato però nel 1958) e la serie “Friends” (1994-2004). Tutti sotto la lente di associazioni e sociologi e poi “censurati”, per motivi differenti. Il primo perché caratterizza una schiavitù per così dire buona mentre il film che celebra l’era dei capelli brillantinati per i boys e dei balli sfrenati, avrebbe fra le sue scene e dialoghi concetti omofobi, sessisti per non dire misogini. La serie “Friends”, infine, è stata contestata perché i protagonisti erano sempre e comunque bianchi. Troppe persone bianche nel cast.
La censura ha colpito anche il mondo del teatro, già dal Regno sabaudo per proseguire nel periodo fascista. Poco meno del 10% delle opere che si trovano nell’Archivio di Stato, su un totale di 13mila copioni che fanno parte dell’inventario, sono state messe al bando dalla fine degli anni Venti agli anni ’60/70. Gli argomenti tabù? Sesso, religione e suicidio. E non si pensi che fra le vittime della censura non ci siano stati nomi importanti: Leopardi, Machiavelli, Pirandello, Aristofane, Flaviano ma anche Shaw o Ibsen. In tempi più vicini a noi anche Dario Fo, ad esempio, ne fu bersaglio, Dacia Maraini ed ancora Tognazzi, Fellini e Monicelli.
Cultura e censura, infine, anche al “Salone del libro” di Torino. Nel 2019 la casa editrice Altaforte è stata esclusa dall’evento, al quale si presentava con un volume dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, poiché considerata vicina a Casapound,movimento politico di estrema destra. Ora fra la casa editrice e il “Salone del libro” c’è un contenzioso in sede civile proprio per quella esclusione.
Censura e negazione della libertà di stampa e di espressione non aiutano di certo il libero pensiero o l’evoluzione della razza umana. Come disse Napoleone III, Re di Francia, “non leggo mai i giornali al mattino, perché stampano solo quello che voglio io.”