In molti paesi la pena di morte è ancora una prassi. Dati e cifre portano a una domanda: ha senso?

A gennaio 2021 la condanna capitale di Lisa Montgomery, 52 anni, la prima esecuzione federale di una detenuta in America da quasi 70 anni. Poi, a marzo scorso, l’annuncio clamoroso che la Virginia ha detto basta alla pena di morte, diventando così il 23° Stato abolizionista degli Usa. Due fatti a confronto, diametralmente opposti, che però evidenziano luci ed ombre di una “pratica” che, seppur abbia origini antichissime, è ancora molto attuale e divide non solo l’opinione pubblica ma anche gli Stati di tutto il mondo.

Da alcuni giudicata crudele, disumana, degradante, da altri un’arma indispensabile per combattere la criminalità, la pena di morte c’è ancora e in più Paesi di quanto si pensi. Sebbene l’Italia e l’Europa, ad eccezione della Bielorussia, non prevedano la condanna capitale nel loro ordinamento giuridico, purtroppo esistono invece Paesi industrializzati, e non, che ancora la contemplano come soluzione punitiva. Paesi come la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Egitto, alcuni Stati degli USA vengono definiti i “boia” per eccellenza, perché detengono il numero più alto di condannati a morte. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International nel 2020 sono state 483 le esecuzioni in 18 Stati, con un decremento del 26%rispetto alle 657 registrate nel 2019. Si tratta del più basso dato registrato nell’ultimo decennio. Ma i dati sono incompleti perché mancano quelli della Cina che il governo di Pechino considera segreti di Stato. L’area Medio Oriente – Africa del Nord ha fatto la parte del leone, totalizzando l’88% delle esecuzioni note e occupando quattro posti su cinque nella classifica degli Stati che hanno fatto segnare il maggior numero di esecuzioni. Oltre alla Cina, la maggior parte riguarda infatti Iran, Egitto, Iraq e Arabia Saudita. Se i numeri riguardanti l’Iran restano grosso modo uguali a quelli degli ultimi anni, in tre Stati ci sono stati sviluppi importanti, due positivi e uno negativo. In Arabia Saudita ci sono state “appena” 27 esecuzioni rispetto alle 184 del 2019, mentre in Iraq sono diminuite di oltre la metà, da 100 a 45. L’Egitto invece ha fatto registrare il passo indietro più drammatico, con 107 esecuzioni rispetto alle 32 del 2019: più del triplo. Altri sviluppi negativi ci sono stati in Qatar, con la prima esecuzione dopo 20 anni, e in Oman, con quattro esecuzioni dopo cinque anni.

Ad oggi i Paesi dove è ancora in vigore la pena di morte sono 57. L’ultimo Paese ad aver detto no al boia è stata la Sierra Leone. Dopo il voto a luglio del Parlamento, ad inizio ottobre il presidente ha promulgato la legge che trasforma anche tutte le condanne in ergastoli. Se questo da un lato significa che più della metà degli Stati del mondo ha abolito la pena capitale, di fatto o eliminandola dalle proprie leggi, dall’altro mette in evidenzia come questa “pratica” non sia stata ancora sradicata del tutto ed anzi, in 55 Paesi, tra quelli che la contemplano, viene ancora usata. Nella maggior parte dei casi ne sentiamo parlare per omicidio o riguardo ai reati sessuali nel mondo arabo e alla libertà di stampa negata in Iran e nelle dittature dell’Asia. Forse pochi sanno che viene inflitta anche per punire i reati di droga. Anzi in questi casi i numeri sono saliti. Il decimo rapporto curato da Harm Reduction International (HRI) evidenzia come nel 2020 sono state 213 le persone condannate a morte per reati di droga, erano 183 nel 2019, e sono state 30 le esecuzioni, tutte tra Cina, Iran e Arabia saudita. Attualmente circa tre mila persone sono detenute nel braccio della morte di tutto il mondo per una condanna alla pena capitale per droga.

È proprio per questo che per alcuni sta diventando quanto mai urgente mandare in soffitta per sempre la ghigliottina. In prima fila c’è la Francia che, 40 anni dopo la sua “conquista di libertà”, vuole utilizzare la sua prossima presidenza del Consiglio dell’Ue per lanciare una campagna globale per abolire la pena di morte laddove è ancora in vigore. In Francia fu il presidente socialista François Mitterrand a mandare in pensione il boia quel 9 ottobre 1981, quattro anni dopo l’ultima esecuzione. Allora la Francia divenne il 35esimo Stato ad abolire la pena di morte. Oggi quel numero è salito a 106, con altri 50 che rispettano una moratoria di diritto o di fatto sulle esecuzioni. 

Forse, dopo gli ultimi fatti accaduti in America, Emmanuel Macron sarà ancora più convinto di voler vincere questa battaglia. Pensate che in Missouri non è servito nemmeno l’appello alla grazia di Papa Francesco a salvare dalla condanna a morte Ernest Johnson, l’afroamericano 61enne detenuto nel carcere di Bonne-Terre. L’uomo è stato giustiziato nonostante per la sua difesa presentasse gravi deficit intellettuali, oltre che una forma benigna di tumore al cervello. Per non parlare poi dell’esecuzione choc del 60enne John Grant. La sua condanna, eseguita tramite iniezione letale, si è infatti trasformata in un vero e proprio supplizio durato 21 minuti in cui l’uomo non ha fatto altro che vomitare ed avere convulsioni. Il fatto ha scosso lo Stato dell’Oklahoma e destato non poche polemiche, anche perché su quel cocktail letale c’era il sospetto che potesse causare un dolore atroce.

Sono proprio gli Usa il Paese più noto per l’utilizzo della pena di morte. Qui sono 28 gli Stati che la prevedono a livello federale, con in testa il Texas sia per il numero di esecuzioni sia per l’ampio ventaglio di reati con essa punibili. Oggi le statistiche ci dicono che le maggiori probabilità di essere condannato a morte riguarda chi è povero o appartiene ad una minoranza etnica o religiosa, a causa della discriminazione nel sistema giudiziario. Anche perché poveri ed emarginati hanno meno accesso alle risorse giuridiche necessarie per difendersi. Dalla nascita degli Stati Uniti sono stati impiegati molti metodi per portare a termine la condanna capitale, tra i quali l’impiccagione, la camera a gas, la sedia elettrica o la più recente iniezione letale, introdotta per la prima volta nel dicembre del 1982. Quest’ultimo metodo ha comportato un considerevole innalzamento dei costi legati alle esecuzioni dovuti al reperimento di sieri mortali efficaci o alle relative strumentazioni da utilizzare. Ciò ha inciso sull’economia generale in quanto le spese di mantenimento dei detenuti vengono erogate direttamente dallo Stato che attinge dai fondi pubblici. Ogni anno il costo complessivo del sistema penitenziario statunitense corrisponde a circa 80 miliardi di dollari e secondo le indagini sinora effettuate un condannato a morte costa alla popolazione americana circa il 50% in più di uno che ha ricevuto l’ergastolo senza possibilità di sconti di pena. I condannati a morte, poi, prima di essere sottoposti all’esecuzione della pena capitale, trascorrono in media dai 10 ai 15 anni nel braccio della morte, sezione penitenziaria molto più dispendiosa rispetto ai costi previsti per il mantenimento dei detenuti distribuiti nelle varie prigioni tradizionali. Oltre alla struttura, nel caso di un processo che potrebbe concludersi con una condanna capitale anche gli appelli, l’organizzazione della difesa e la selezione della giuria presentano costi che superano i processi classici di oltre 200 mila dollari.

Secondo il report annuale del Death Penalty Information Center (Dpic), nel corso dell’ultimo anno del suo mandato, Donald Trump ha giustiziato più carcerati di quanto abbiano fatto tutti gli Stati dove ancora è prevista l’esecuzione capitale. Quella che il Guardian definisce come una “folle ondata di esecuzioni” è senza precedenti nella storia del Paese in forte controtendenza rispetto al recente calo dell’utilizzo della pratica di pena di morte da parte dei diversi Stati federali. La pandemia ha abbassato ulteriormente il numero già moderato di esecuzioni programmate a livello statale. Solo Alabama, Georgia, Missouri, Tennessee e Texas hanno infatti compiuto un totale di 7 esecuzioni giudiziarie nel 2020, la cifra più bassa dal 1983. In netta contrapposizione invece l’amministrazione di Trump ha messo a morte 10 prigionieri. Nonostante questo record il sentiment dell’America sull’argomento sta cambiando, anche se molto lentamente. Infatti, solo il 55% degli americani oggi crede, secondo un sondaggio condotto da Gallup, che la pena capitale sia la punizione appropriata per un assassino, il sostegno più basso nella storia. E cavalcando questa onda di umanità il neo-presidente Joe Biden ha promesso di porre fine all’uso della pena di morte.

Forse questa promessa dovrebbe essere generalizzata, dovrebbe riguardare tutti i popoli. E qualche barlume di speranza c’è. Anche l’Africa ha fatto passi avanti. Oltra a Sierra Leone, la Corte suprema del Malawi, accogliendo l’appello di un condannato, ha dichiarato la pena di morte incostituzionale e ha ordinato una revisione delle sentenze per tutti coloro che rischiano di essere condannati alla pena capitale. La legislazione del Paese prevedeva questo tipo di condanna per reati di omicidio o alto tradimento, ma poteva anche essere applicata, insieme all’ergastolo, in casi molto gravi di stupro, rapine violente o violazione di domicilio. In generale, nel continente africano, la condanna alla pena capitale è ancora molto frequente, ma si esegue meno. Per quanto riguarda l’Africa subsahariana l’uso della pena di morte si è ridotto e le esecuzioni registrate nella regione sono scese del 36%: da 25 nel 2019 a 16 nel 2020,concentrate in tre Paesi, ovvero Botswana, Somalia e Sud Sudan. Anche le sentenze di morte registrate sono diminuite del 6%: da 325 nel 2019 a 305 nel 2020.

Al di là delle proprie convinzioni, che portano ad essere favorevoli o contrari, una domanda è necessario porsi: “questo tipo di pratica può davvero scoraggiare il crimine?”. Secondo studi sociologici, la risposta è no. Innanzitutto, viola il diritto alla vita. Lo Stato non può ergersi a esecutore e diventare criminale tanto quanto il condannato. La pena di morte non ha poi valore deterrente. La stessaAmnesty international, che si batte per la sua abolizione nel mondo, da anni pubblica report per spiegare come le condanne spesso avvengano a margine di processi iniqui, possono togliere la vita ad innocenti e soprattutto che negli Stati in cui viene applicata essa non scoraggia la criminalità e non vi sono prove che sia più efficace della reclusione a vita.

di: Maria Lucia PANUCCI

Box: Un po’ di storia…
La prima fonte scritta relativa all’applicazione della pena di morte è costituita dal Codice di Hammurabi risalente al 1750 a.C. che la prevedeva per sacrilegio, furto e omicidio. Le antiche civiltà facevano tutte ricorso alla pena capitale: gli egizi gettavano il condannato, ancora vivo e chiuso in un sacco, nel Nilo; i greci la usavano in modo costante, così come i romani che adottavano l’impiccagione o la damnatio ad bestias, che prevedeva di far sbranare vivi i condannati dagli animali feroci nelle arene. Cesare Beccaria fu il primo ad opporsi alla pena di morte quando pubblicò nel 1764 il suo libro, poi divenuto celebre, Dei delitti e delle pene. L’applicazione della pena capitale ha scatenato in molte occasioni conflitti interni ed esterni e gli organismi internazionali hanno adottato vari strumenti volti a proibirla. L’Onu ha approvato nel 2007 la Moratoria universale della pena di morte, specificando che tale pena viola il diritto alla vita riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e che costituisce omicidio premeditato da parte dello Stato. La moratoria però non è vincolante per gli Stati membri, i quali possono anche decidere di non applicarla, come accade in Cina e negli Usa. E in Italia? Fu il Granducato di Toscana nel 1786 il primo Stato al mondo che abolì legalmente la pena di morte. Nell’Italia unificata l’abolizione arrivò nel 1889, per poi essere reintrodotta durante gli anni del regime fascista. Soltanto con l’avvento della Costituzione la pena di morte venne definitivamente abolita nell’art.27 che inizialmente la contemplava solo nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. Poi con la Legge del 13 ottobre 1994, n. 589 è venuta meno anche l’ultima ipotesi e fu sostituita nel Codice Penale Militare di Guerra con la massima pena prevista dal Codice penale, ossia l’ergastolo.