Dopo 20 mesi di negoziati il Parlamento turco ha approvato l’ingresso della Svezia nella NATO

Dopo 20 mesi di lunghe e difficili trattative, il 23 gennaio il Parlamento turco ha approvato con una maggioranza schiacciante l’ingresso della Svezia nella Nato.

Dopo quattro ore di discussione, dei 346 parlamentari che hanno partecipato al voto 287 hanno detto sì alla ratifica che sancisce l’allargamento, 55 si sono detti contrari e solo quattro si sono astenuti. Ha votato a favore l’intero gruppo parlamentare del partito Akp di Erdogan, gli alleati nazionalisti dell’Mhp e il principale partito di opposizione, i repubblicani del Chp. Adesso manca la firma del presidente Erdogan, ma si tratta solo di una formalità burocratica: il leader turco aveva infatti già preannunciato il via libera a Stoccolma, definendolo un “gesto di apertura” in cambio del quale si sarebbe aspettato “passi concreti nella lotta al terrorismo“.

A Stoccolma c’è grande soddisfazione per il risultato raggiunto: “oggi siamo un passo più vicini nel diventare membri a pieno titolo della Nato. – Ha twittato Kristersson. – È positivo che la Grande Assemblea Generale della Turchia abbia votato a favore dell’adesione della Svezia all’Alleanza atlantica“. 

Ma cosa c’è dietro il “sì” inaspettato di Erdogan

L’accordo tra Svezia e Turchia

La Turchia è sempre stata, fin dall’inizio delle trattative, lo scoglio apparentemente più difficile da superare per la Svezia nel suo percorso di adesione alla Nato. Nonostante la mediazione del Segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg, sono stati necessari diversi compromessi per convincere il presidente turco Erdogan a firmare i protocolli di adesione.

  • I curdi e le leggi sul terrorismo

Uno dei punti più ostici da affrontare è stato quello relativo alle leggi nazionali svedesi sul terrorismo, che sono state cambiate per andare incontro alle richieste di Ankara. Erdogan ha preteso dalla Svezia garanzie di “non interferenza” nella politica che la Turchia ha applicato verso i curdi in generale e gli esponenti del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, in particolare.

La Turchia ritiene (di comune accordo con Stati Uniti e Unione Europea) che il Pkk sia un’organizzazione terroristica e accusa da sempre la Svezia di adottare un comportamento “indulgente” nei confronti dei miliziani curdi rifugiatisi nel suo territorio. Erdogan aveva quindi chiesto come prova di “buona fede” l’okay all’estradizione dei “30 terroristi” curdi rifugiati nel Paese scandinavo, altrimenti la Turchia sarebbe rimasta sul categorico “no” alla richiesta di adesione. Le 30 persone coinvolte non appartengono, però, solo al Pkk: si tratta di curdi legati anche alla milizia YPG, combattenti che in Siria hanno sconfitto l’Isis, e al PYP, vale a dire i curdi di Kobane, che controllano Rojava.

Nella lista pubblicata dal quotidiano turco Hurriyet figurano tutti i nomi dei curdi inseriti nella richiesta di estradizione ma tra di loro non appaiono solo militari o ribelli: ci sono giornalisti, insegnanti e ricercatori, persone che hanno criticato Erdogan e il suo operato e hanno paura di tornare in Turchia e di essere condannati. Tra i nomi dei coinvolti figurano quelli di Bülent Kenes, Levent Kenez e Hamza Yalçın, giornalisti che hanno pubblicato articoli critici nei confronti del presidente turco; Musa Doğan, attivista condannato in Turchia nel 1993 all’ergastolo per aver partecipato ad alcune manifestazioni; Burcu Ser, impiegato in un’associazione internazionale per i diritti delle donne; e ancora Mehmet Demir, ex co-sindaco di una città dell’Anatolia del sud, costretto a fuggire dalla Turchia per le sue origini curde.

La Svezia ha aperto le porte ai curdi in fuga dalle zone di guerra negli anni ’70 e da allora è stata considerata un “Paese rifugio”. Alcuni rifugiati curdi sono diventati nel frattempo anche deputati nel Parlamento svedese. È il caso ad esempio di Amineh Kakabaveh, che ha bollato come “tradimento” l’accordo fatto dal Governo svedese e dalla Nato con Ankara.

Per riuscire a sbloccare la situazione, la Svezia (come la Finlandia prima di lei) si è impegnata a contrastare sul proprio territorio attività che per Ankara costituiscono “sostegno al terrorismo” e a bloccare fonti di finanziamento nei confronti delle attività separatiste curde del Pkk e dei curdo siriani dello Ypg. È stato un percorso più difficile di quello affrontato da Helsinki, rallentato dalle ripetute manifestazioni anti turche che si sono susseguite nelle principali città del Paese, con bandiere del Pkk e diversi sit-in durante i quali è stato dato fuoco al Corano. Queste rappresaglie hanno provocato diverse convocazioni dell’ambasciatore svedese ad Ankara e bloccato in più di un’occasione il dialogo tra Svezia e Turchia.

  • L’adesione all’Unione Europea

Tra le richieste avanzate da Erdogan in cambio della concessione alla Svezia, c’è anche la ripresa deli negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea. In verità allo stato attuale delle cose si tratta di una richiesta impossibile da soddisfare ma rilanciare il dibattito potrebbe portare ad altre aperture: per esempio ad Ankara potrebbe essere permesso accedere all’unione doganale e ai cittadini turchi potrebbe essere garantita la possibilità di viaggiare in Europa senza bisogno del visto.

Ma a Erdogan potrebbe interessare anche la gestione dei migranti. Centrale nella sua ultima campagna elettorale è stato infatti il dibattito sui flussi migratori: in Turchia ci sono quattro milioni e mezzo di profughi siriani e i numeri sono in aumento, perché dopo la presa del potere in Afghanistan dei talebani moltissime persone in fuga hanno superato i confini turchi. Migliorare le relazioni con l’Ue potrebbe significare avere un aiuto per gestire i migranti: un impegno in questo senso c’era stato già nel 2016 ma si era arenato per questioni legali. 

Inoltre, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, Erdogan ha dato adito al pensiero di voler trasformare il Paese in un hub del gas diretto verso il mercato europeo, anche per fronteggiare la crisi economica interna; sono diversi dunque i dossier internazionali che beneficerebbero di un riavvicinamento all’Unione, pur senza entrare di diritto a far parte dell’Ue.

  • I rifornimenti militari da Usa e Canada

Tra gli obiettivi delle contrattazioni di Erdogan c’erano anche i rifornimenti militari da Stati Uniti e Canada. Già durante l’ultimo colloquio intercorso tra il presidente turco e il segretario di Stato Usa Antony Blinken, a inizio gennaio, si era parlato della vendita degli F-16 alla Turchia. Gli F-16 sono i caccia più famosi al mondo, aerei da combattimento monomotore e multiruolo costruiti dall’appaltatore della difesa americano Lockheed Martin. La vendita di questi jet alla Turchia è ferma perché il Congresso statunitense si è strenuamente opposto al rifornimento; ma per Erdogan ottenere i caccia e i pacchetti di aggiornamento per gli F-16 che sono già in dotazione all’aeronautica turca è indispensabile, altrimenti le forze aeree nazionali diventerebbero obsolete.

A maggior ragione perché la Grecia, con cui Ankara ha un rapporto contrastato da anni, è riuscita a ottenere dagli Usa i più recenti F-35. Anche la Turchia era in accordi con gli Usa per questi ultimi ma la vendita è andata in fumo dopo che Ankara ha acquistato dei sistemi di difesa russi S-400.

Contrattando per il “sì” alla Svezia, Erdogan ha messo sul piatto della bilancia anche i nuovi F-16 e i kit di ammodernamento; il presidente Usa Joe Biden ha fatto pressioni al Congresso perché la vendita venisse sbloccata e ha influito notevolmente anche il fatto che le relazioni tra Atene e Ankara appaiono al momento più stabili, perché entrambi i Paesi hanno dovuto fronteggiare catastrofi ambientali di portata tale da spegnere i toni bellicosi.

Oltre ai jet, sebbene ancora da confermare, Erdogan sembrerebbe aver ottenuto la fine dell’embargo sulla vendita di armi dal Canada. Per l’industria militare turca si tratta di un successo enorme perché all’attivo ci sono diversi progetti che prevedono l’uso di componenti realizzati proprio in Canada.

Benché i timori occidentali si concentrassero sulla Grecia, sono anche i curdi del Rojava a guardare con preoccupazione alla vendita degli F-16 alla Turchia. Ankara ha intensificato i bombardamenti sul nord della Siria e la preoccupazione dei curdi è che con i nuovi jet e senza più l’appoggio dei paesi scandinavi questa aggressione diverrà ancora più violenta. Secondo i dati del Syrian Observatory for Human Rights, l’osservatorio con base a Londra, nel 2023 la Turchia ha condotto 117 attacchi contro il Rojava, l’ultimo il 23 dicembre. Da Ankara è stato dichiarato che il bombardamento di fine anno era una risposta all’attacco del Pkk contro i soldati turchi ma il capo delle forze curdo-arabe del Rojava ha negato il coinvolgimento in un’intervista esclusiva rilasciata ad Al-Monitor, specificando che il Pkk non opera in Rojava.

Palla all’Ungheria

L’esito della candidatura svedese, rimasta appesa a un filo per quasi due anni, dipende ora solo dall’approvazione dell’Ungheria. Il premier ungherese Viktor Orbàn ha fatto sapere, dopo che Ankara ha approvato con una maggioranza schiacciante l’adesione di Stoccolma all’Alleanza, di aver inviato una lettera al primo ministro svedese Ulf Kristersson per invitarlo in Ungheria in modo da “negoziare” l’adesione. 

In teoria il percorso dovrebbe essere meno complicato, ma il ministro degli Esteri svedese Tobias Billström ha dichiarato che non c’è alcun motivo per cui adesso Stoccolma dovrebbe negoziare con l’Ungheria l’adesione alla Nato: «al vertice di Madrid dello scorso anno, l’Ungheria ha concesso alla Svezia lo status di ospite in vista dell’adesione alla Nato, senza alcuna riserva. Non vedo quindi alcun motivo per negoziare oggi».

di: Micaela FERRARO

FOTO: ANSA/EPA