I nuovi schiavi non hanno catene, ma app e biciclette. Hai voluto il lavoro? Adesso pedala

Mai rifiutare una consegna di sabato sera, di domenica, sotto la pioggia incessante con il freddo che penetra nelle ossa. Mai ribellarsi ad un cliente cafone e sorridere sempre anche se il vippone di turno è talmente tirchio da non tirare fuori neanche un soldo per la mancia. L’unica parola d’ordine è volare sui pedali della propria bici, in macchina o in motorino. Bisogna essere efficienti e veloci a tutti costi, cercare di barcamenarsi anche tra mignotte, papponi e balordi e mai farsi ingoiare dal vorace, a volte pericoloso, popolo della notte. Tentare, ad ogni sofferto chilometro, di sudarsi quei 10 o anche meno euro lordi all’ora, con gli occhi fissi sulla strada per arrivare il prima possibile sotto casa del prossimo cliente. Questa è la vita del rider, un mestiere spacciato in velocità assai giovane e molto 4.0, in realtà l’ultimo gradino della scala sociale che fa sentire nella maggior parte dei casi solo servi della gleba, per lo più in bicicletta. 

Secondo le stime delle società del settore, il mercato del food delivery in Italia nel 2020 ha toccato i 900 milioni di euro.Quasi il doppio dell’anno precedente, quattro volte quello del 2018. Un business in forte crescita quindi, seppur relativamente giovane, nato durante il boom delle startup tecnologiche della Silicon Valley del 2010e arrivato in Italia cinque anni dopo. In base agli ultimi report pubblicati dall’Inps e dalle divisioni italiane delle società di consegna di cibo a domicilio prenotato via app, nel 2019 si contavano circa 11.000 rider.Oggi il numero è arrivato a quota 60.000 solo considerando quattro delle principali società del settore: Foodinho-GlovoUber Eats, Just Eat e Deliveroo.

Nella neolingua dell’innovazione il tipo di business delle società di food delivery è chiamato gig economy, economia dei lavoretti, quelli che inizialmente si svolgevano saltuariamente con compensi a buon mercato. Poi nel tempo l’impegno richiesto ai riders si è fatto via via sempre più consistente, mentre le società diventavano colossi dei mercati e delle borse. Il settore è esploso durante la pandemia quando, con i ristoranti chiusi, in moltissimi si facevano portare a casa il proprio cibo preferito.

Ma chi sono i rider? Di loro non esiste un ritratto standard e per raccontarli serve l’esperienza dei sindacati. «Molto spesso la differenza di tipologia di lavoratore è una differenza geografica. Ci sono lavoratori diversi in base alla città – spiega Silvia Simoncini, segretaria Nazionale NIdiL (Nuove Identità di Lavoro) della Cgil. – Bologna e Firenze hanno una prevalenza di lavoratori giovani, spesso studenti universitari. Napoli e Palermo hanno invece una forte presenza di lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, mentre a Roma e Milano c’è una forte presenza di lavoratori migranti. In generale, comunque, i riders sono in prevalenza maschi».

Carlo, 35 anni, di Roma, disoccupato da un paio d’anni, ci ha raccontato la sua esperienza. «Ho lavorato per tanti anni nel negozio di articoli sportivi di un caro amico di famiglia, poi con l’emergenza sanitaria, è fallito. Non potevo rimanere fermo per troppo tempo, la mia famiglia aveva bisogno che io lavorassi, con una moglie ed una bambina piccola a carico, e così mi sono messo a fare il rider. Armato di smartphone, di scooter e di tanta pazienza, ho iniziato a lavorare nel mio quartiere, in periferia, per una delle società di delivery più note al mondo, sostando per ore, in attesa degli ordini, dinnanzi ai principali locali che usufruiscono di questo servizio. I primi tempi non sono stati per niente facili: tornavo a casa stanco, deluso e spesso arrabbiato. Pur attento a guardare lo smartphone per accettare in tempi brevi la notifica di un ordine, c’era chi, in quella guerra tra poveri, era più veloce di me. I guadagni, almeno all’inizio, sono stati lenti e irrisori, fino a quando non ho deciso di allargare il mio raggio d’azione e di lavorare per più ore, concedendomi una pausa solo negli orari più morti, tra le 15.30 alle 17.30. Ho imparato che, per guadagnare dignitosamente seppur poco, è necessario avere una strategia, capire in quali orari c’è più richiesta, sostare in sella al proprio scooter a metà tra un locale e l’altro e ampliare il proprio raggio d’azione. I corrispettivi di un rider non sono mai uguali: la retribuzione dipende da una serie di fattori come la distanza percorsa e il totale complessivo dell’ordine. Fortunatamente ora questi per me sono solo ricordi. Ho trovato un altro lavoro sempre come commesso e sono tornato a vivere, ad avere degli orari più umani e finalmente sono tornato a godermi la mia famiglia».

Dopo questa testimonianza alcune domande sorgono spontanee. Quanto guadagna in media un rider? Ci sono dei vantaggi oggettivi svolgendo questo tipo di lavoro? Partiamo con ordine. La paga mensile media, stando ad alcune stime, si aggira sugli840 euro al mese, Ed è anche per questa cifra bassa che, stando a quanto riportato da alcune aziende di delivery, solo il 15% dei riders lavora per più di 12 mesi. Appena si può si cambia.La paga varia a seconda di quale servizio di consegna si sceglie: volete lavorare per Deliveroo? La paga si attesta sui 10 euro lordi l’ora in media, con un compenso calcolato secondo la distanza, più un euro se scegliete di consegnare con la vostra bicicletta. Avete scelto Glovo? In questo caso la paga parte da un minimo di 4 euro per due ore di disponibilità alla consegna, anche se non ricevete ordini, e poi aumenta secondo diversi fattori (in base all’ordine, esperienza, feedback etc).

Tanti dichiarano di fare il rider per la flessibilità oraria, uno dei principali vantaggi di questo lavoro: si sceglie autonomamente quando e per quanto tempo dare la propria disponibilità. Si ricevono le consegne e via verso il ristorante o fast food di turno, per poi portare il pasto caldo al cliente che, a discrezione, può lasciare anche le mance che vengono trattenute direttamente dal rider stesso. Per lavorare è necessario essere sempre maggiorenni e disporre di un mezzo a scelta, bicicletta o motorino: in alcuni servizi, come Glovo, bisogna pagare però un piccolo deposito cauzionale per iniziare, che in questo caso è pari a 60 euro e comprende pettorina, box di consegna e Power Bank per il proprio smartphone. Lo smartphone è fondamentale per ricevere e gestire gli ordini, oltre alle app di mappe che guidano i riders in giro per la città e in luoghi spesso non conosciuti. Ma il fatto di avere gli occhi incollati sul percorso da seguire, rappresenta uno rischio mentre superano incautamente un incrocio o mentre si barcamenano, in sella alla propria bici, nel traffico caotico delle città. E qui sorge un altro problema perché in molti casi tardano ad arrivare anche i pagamenti delle diarie per infortunio nella maggior parte dei casi a causa del mancato aggiornamento del software usato per gestire automaticamente le pratiche sugli incidenti. E con il fatto che il mezzo usato per lavorare è il proprio, le cronache ci raccontano di diversi riders picchiati e malmenati perché hanno cercato di non farsi rubare la bicicletta o lo scooter da qualche balordo incontrato in un quartiere malfamato durante la consegna. Non solo: c’è da stare attenti anche alle rapine che possono essere organizzate come un videogioco. I clienti, quando effettuano un ordine dalla loro app, conoscono il nome e la faccia del proprio rider per la consegna ma possono anche monitorare in tempo reale dove si trovi lo stesso. Molti fattorini si vedono arrivare ordini fittizi creati con carte prepagate fasulle con pagamento alla consegna. Le quattro o più persone che hanno creato l’ordine intercettano in tempo reale il rider sul percorso grazie al Gps dell’app, lo accerchiano e lo rapinano del cibo, se gli va bene. Ma se le cose vanno male il rider rischia anche d’essere picchiato, vedersi sottrarre i soldi e anche il motorino.

C’è da considerare anche il processo di assegnazione dell’ordine ad un rider che è ad opera dell’algoritmo, un software proprietario della piattaforma che dovrebbe garantire la massima efficienza in termini di tempi di attesa per il cliente. Di fatto invece l’algoritmo ha tutt’altro obiettivo perché da questo dipende il diritto di ogni fattorino ad ottenere dei turni di lavoro e/o di vedersi assegnate un maggior numero di consegne quando è online. L’algoritmo sceglie con quale grado di priorità chiamare un rider rispetto ad un altro in base ad un punteggio derivato dalle prestazioni precedenti, che prende il nome di rating, ed in base alla classifica del rider, ovvero il ranking. Se il rider assegnatario dell’ordine lo rifiuta o non lo accetta in breve tempo, si innesca un meccanismo “ad asta” in cui lo stesso ordine viene proposto ad altri fattorini, sempre sulla base del ranking. In questo processo il valore dell’ordine può anche aumentare (tipicamente nei giorni con clima avverso o in caso di scioperi). L’algoritmo, quindi, non è altro che un gestore del personale digitale automatizzato che, attraverso il processo di assegnazione dei turni e delle consegne, controlla la flotta di riders che fa lavorare sul territorio in un dato momento e il valore delle loro paghe, scaricando di fatto su di essi tutto il rischio d’impresa, particolarmente alto in questo settore di mercato. A causa dell’algoritmo “Frank”, l’azienda Deliveroo è finita nell’occhio del ciclone, condannata in Italia al versamento di 50 mila euro. Il Tribunale di Bologna ha reputato il meccanismo illegittimo perché discrimina i lavoratori, non tenendo conto delle motivazioni che hanno determinato l’assenza. Il problema di “Frank” stava infatti nella sua incapacità di distinguere l’effettiva ragione che ha portato il lavoratore a non svolgere l’incarico all’ultimo minuto: che si trattasse di futili motivi o di ragioni di salute, il rider veniva sempre declassato.

I riders sono i moderni fattorini, “figli” di un business che si è imposto negli ultimi tempi e che mette al centro il cliente ma non valorizza affatto chi ci lavora. Nel 2016 l’avvocato australiano Josh Bornstein, esaminando i contratti di lavoro di Deliveroo e Foodora, li ha definiti “fasulli”, costruiti per “negare ai lavoratori i profitti di base”. Le condizioni d’impiego hanno generato proteste in ogni parte del mondo. Una curiosità? Durante uno sciopero da parte dei riders di Deliveroo a Londra, è stato lanciato il neologismo “slaveroo”, dall’inglese slavery, ovvero schiavitù. In questo contesto il contratto rappresenta sicuramente la problematica maggiore. La maggioranza delle società di food delivery non assume i riders come lavoratori dipendenti: a loro vengono imposti contratti di lavoro autonomo, sostanzialmente perché sono liberi di accettare o rifiutare la prestazione. Ad ottobre 2016, 6 fattorini di Foodora hanno intentato una causa civile al tribunale di Torino per essere riconosciuti come lavoratori dipendenti. Subito non è stata accolta la loro richiesta ma successivamente la Corte di Cassazione, rivedendo l’interpretazione resa dalla Corte d’Appello di Torino, ha esteso a tutti i collaboratori coordinati e continuativi (non solo ai riders) una serie di tutele rafforzate discendenti dalla nuova disciplina del lavoro parasubordinato, rendendo la loro condizione quanto più possibile ravvicinata a quella di un lavoratore dipendente. Questo è stato il primo grande passo. Poi la svolta è arrivata con il nuovo decreto-legge n.101/2019 che inquadra il rapporto di lavoro dei riders nell’ambito delle collaborazioni etero-organizzate. Nel testo si legge che “i riders sono i lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche digitali”. Questa stessa legge ha, per la prima volta, apportato un’importante riforma in favore dei riders, prevedendo un salario orario minimo basato sui Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro per settori simili; un’indennità extra del 10% sul salario orario per le consegne effettuate durante la notte o i fine settimana; una copertura assicurativa obbligatoria contro gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali. Ha fatto molto discutere, a novembre 2020, la firma di una Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro da parte di Assodelivery, che raccoglie le principali piattaforme del settore, e la sigla sindacale UGL Riders. Gli altri principali sindacati confederati ne sono rimasti fuori visto che lo hanno bollato a chiare lettere come peggiorativo, in quanto continuava a legittimare i fattorini come partite iva e non come lavoratori dipendenti. Il contratto in questione prevede un pagamento teorico di 10 euro all’ora che però include la sola ora lavorata, ovvero il tempo impiegato dal momento dell’accettazione alla consegna. Le relative attese perché il cibo non è pronto o i ritardi causati dal cliente non vengono minimamente considerati. Come se non bastasse, i tempi di trasporto remunerati, vengono calcolati dall’azienda attraverso alcune tabelle che non corrispondono sempre al tempo effettivo. «Per ciò che riguarda l’indennità di maltempo mi sono trovato in fattura 3,77 euro», ha spiegato un rider. Questo avviene perché nell’accordo non è specificato chi debba certificare le precipitazioni: in teoria l’indennità scatta con più di due millimetri di pioggia ma non si capisce quale sia la fonte del dato atmosferico. Insomma, tra tasse, spese varie tra cui l’eventuale carburante e la fisiologica emorragia di tempo che passa tra una consegna e l’altra, alla fine bisogna lavorare fino allo stremo per avere uno stipendio decente.

A fine marzo è stato raggiunto quello che molti hanno definito un risultato “storico”. Just Eat Italia ed i sindacati hanno firmato un’intesa in base alla quale i fattorini vengono assunti come lavoratori dipendenti con il contratto nazionale della logistica, trasporto, merci e spedizioni, mentre l’azienda si impegna ad assumere altre quattro mila persone entro l’anno. I riders diventano così lavoratori subordinati, dipendenti a cui vanno garantiti diritti come la paga base legata ai minimi contrattuali e non alle consegne, il Tfr, la previdenza, infortunio, maternità o paternità, ferie, orario di lavoro minimo, festività e notturni, oltre al rimborso spese per l’uso del mezzo proprio. Il compenso orario di norma non sarà inferiore a 9 euro sino alla maturazione di un’anzianità lavorativa della durata complessiva di due anni. Si parte con 8,50 euro all’ora, a cui si aggiunge il premio di risultato di 0,25 euro a consegna, oltre alle eventuali maggiorazioni per il lavoro supplementare, straordinario, festivo e notturno. Con questo strumento Just Eat si è voluta chiaramente smarcare dai concorrenti, rifiutando di fatto l’accordo firmato a novembre 2020.

Ora si spera che altre aziende in altri Paesi seguano questo esempio. E forse qualcosa già si sta muovendo. In Spagna il Governo ha approvato una nuova legge sul lavoro dei riders che dà 90 giorni di tempo alle piattaforme di food delivery per trasformare i contratti dei circa 17 mila fattorini presenti sul territorio in rapporti di lavoro subordinato.Una cosa simile l’ha fatta anche il Portogallo.

Questa è la direzione giusta: il lavoro dei riders va riconosciuto in quanto tale e non come “lavoretto”. La differenza non è solo semantica: il lavoro ha una sua dignità e merita di essere tutelato.

di: Maria Lucia PANUCCI