Il Presidente Mattarella ha convocato Mario Draghi per un Governo di fuoriclasse. Chi è e perché può salvare il Paese
Mario Draghi farà davvero ripartire l’economia italiana? è davvero l’unica ed inevitabile soluzione per uscire da una crisi straordinaria che ha colpito tutto il mondo? La domanda, per noi comuni mortali è d’obbligo, ma per altri, economisti esperti, politici o persone che lo hanno visto all’opera con i propri occhi, è una certezza, un dato di fatto.
Mario Draghi, l’uomo incaricato da Sergio Mattarella a prendersi la patata bollente di guidare il Paese in un momento difficilissimo, sarà il nostro salvatore, sarà la chiave per uscire dall’impasse sanitaria ma soprattutto economica in cui ci siamo infilati, l’eroe che sconfiggerà questo maledettissimo virus che si chiama Covid 19.
Ma da dove arriva questa spudorata convinzione che Draghi riuscirà nell’impresa titanica? Be’, intanto dall’Europa, dove il banchiere gode di un’ottima reputazione. Tutti, ma proprio tutti, da Christine Lagarde, presidente della Bce, a Paolo Gentiloni, Commissario europeo per l’economia, alla leader della Commissione europea Ursula von der Leyen, sono convinti che sia l’unico in grado di far ripartire il Paese. E a conti fatti anche da noi gode di una stima encomiabile. I big della politica, le parti sociali e persino uno scettico come Bonomi, leader di Confindustria, hanno deciso di affidarsi nelle sue mani, definendo Draghi un «patrimonio per il nostro Paese». Per non parlare poi del popolo. Anche lì ottiene larghi consensi, persino più di Conte, amatissimo dagli italiani per come ha gestito la pandemia.
Insomma, il nome di Draghi mette davvero d’accordo tutti e già solo per questo si merita l’appellativo di “super Mario”. Ma in realtà è grazie al suo operato che oggi è per tutti una garanzia.
I ben informati rivelano che sia talmente puntuale che abbia l’orologio al polso puntato cinque minuti in anticipo e che, quando nel corso della sua carriera andava ad un vertice o alla riunione dell’Eurogruppo, amasse viaggiare leggero al punto da imbarcare il bagaglio, seppur minuscolo, col necessario di una sola notte in albergo. Estremamente riservato per essere una persona che da quarant’anni si muove sotto i riflettori sia in Italia che all’estero, dei primi anni di Draghi si conoscono giusto quei dettagli che contribuiscono a farne una figura inusuale. Nato a Roma nel 1947 da padre banchiere e madre farmacista, a 15 anni rimane orfano e viene cresciuto, insieme al fratello e alla sorella, dalla zia. Devoto a sant’Ignazio di Loyola, frequenta un liceo classico retto dai gesuiti, dove si troverà in classe due figure che difficilmente si assocerebbero a lui: l’imprenditore ed ex presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo e l’uomo di spettacolo Giancarlo Magalli che lo ha sempre definito come un adolescente estremamente riservato. «Non era uno di quelli che faceva la spia al professore – ha raccontato. – Da ragazzino era come adesso: con la sua riga, pettinato come adesso, sempre con quel sorriso che era il suo biglietto da visita».
Della vita privata di Draghi si sa molto poco. Nella sua villa a Lavinio, vicino Roma, è stato spesso avvistato senza auto blu ed in tenuta normale se non sportiva. Cosa che non deve sorprendere affatto visto che lui stesso ha più volte dichiarato di essere un grande appassionato di sport, dal jogging al trekking, fino al tennis e al golf. La moglie, Maria Serenella Cappello, proviene da una famiglia nobile essendo una discendente della sposa del Granduca di Toscana Francesco de’ Medici, Bianca Cappello. Insieme hanno avuto due figli: Federica Draghi, dirigente di una multinazionale che cura le biotecnologie, e Giacomo Draghi, trader finanziario presso la Morgan Stanley. La famiglia Draghi è anche composta dal bracco ungherese, il cane a cui Mario è molto affezionato e con il quale condivide buona parte del tempo libero.
Molto prima che diventasse il braccio destro di Guido Carli, nel 1970 si laurea in Economia alla Sapienza: il suo relatore è Federico Caffè, pensatore eterodosso che collaborava con Il Manifesto e concentrava le sue riflessioni sulla necessità di assicurare alti livelli di occupazione e di protezione sociale, specie per i ceti più deboli. Dopo la sua morte avvenuta in circostanze misteriose nel 1987, Draghi ha continuato a vestire i panni del discepolo, affermando che la politica economica nella sua definizione più alta, richiede di «porre rimedio alle disuguaglianze, ma anche alle inefficienze».
Prima di spiccare il volo con i vari incarichi istituzionali, la carriera di Mario Draghi inizia come professore universitario. Ha insegnato economia e politica monetaria internazionale alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Prima da docente incaricato, poi ottenne la cattedra. A volerlo a Firenze furono due docenti che ne apprezzavano le capacità, Ezio Tarantelli, ucciso dalle Br nel 1985, e Fausto Vicarelli.
Ma com’era Draghi come professore? Amava molto spiegare l’economia con esempi pratici, per renderla più comprensibile a tutti ma al contempo era esigente. C’è anche un dettaglio molto curioso che emerge dai racconti di chi ha vissuto con lui quegli anni: agli studenti lasciava portare libri, appunti ecalcolatrice, tutte cose che servivano però a ben poco. Per risolvere i suoi quesiti bisognava aver capito bene i meccanismi dell’economia. Elasticità e rigore li pretendeva, oltre che da sé stesso, anche dai suoi alunni.
A influenzarlo forse più che ogni altra esperienza sono stati gli anni americani. Tra il 1971 e il 1976 è il primo italiano ad ottenere un dottorato al Massachusetts Institute of Technology. Qui gioca a calcio con il politologo Gianfranco Pasquino e studia fianco a fianco con alcuni dei personaggi che plasmeranno il mondo a venire, come Ben Bernanke, futuro presidente della FED, ed il premio Nobel Paul Krugman.
Fino ai primi anni Ottanta insegna tra Trento, Padova, Venezia e Firenze. Oggi ha quattro lauree e due dottorati di ricerca honoris causa, in scienze statistiche, relazioni internazionali, economia e giurisprudenza. Il New York Times non si fa problemi a descriverlo come una persona che ha «una comprensione dell’economia forse più sofisticata di qualsiasi altro capo di stato del pianeta».
Nel 1991 diventa Direttore generale del ministero del Tesoro, posizione che ricopre per 10 anni, fino al 2001. Durante la sua permanenza al Tesoro, ha presieduto la commissione che ha rivisto la legislazione societaria e finanziaria italiana e ha redatto la legge che regola i mercati finanziari italiani. Ha svolto un ruolo centrale nella riduzione del debito pubblico italiano, dei deficit di bilancio annuali e nella stabilizzazione dei tassi di interesse e dei tassi di cambio. Tali azioni hanno consentito all’Italia di entrare a far parte dell’Unione monetaria europea del 1999.
Dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e amministratore delegato di Goldman Sachs International a Londra, una controllata della banca d’investimento americana. Ha lavorato alla strategia e allo sviluppo europeo dell’azienda con le maggiori società e governi europei. Nel 2006 ha assunto il ruolo di governatore della Banca d’Italia, e nei cinque anni successivi ha lavorato per introdurre una gestione responsabile e una politica monetaria rigorosa all’interno dell’istituzione. Non può saperlo, ma il momento definitivo della sua carriera, quel “whatever it takes” (qualsiasi cosa sia necessario) che ormai è la sua citazione più nota, è dietro l’angolo. Diverse economie dell’eurozona sono messe in ginocchio dalla crisi, gli investitori temono che i governi non saranno più in grado di ripagare i propri debiti pubblici, l’Unione Europea è in subbuglio. Draghi deve superare i dubbi della Germania, che nutre diversi stereotipi duri a morire sugli italiani. Ma alla fine la sua reputazione convince tutti. Arriva a Francoforte sul Meno lasciando gli italiani con una citazione: «una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d’oltralpe risolva i nostri problemi. Come in altri momenti della nostra storia, oggi non è così. È importante che tutti i cittadini ne siano consapevoli. Sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Spettano a noi». Ed è a Londra, circondato da investigatori e dirigenti d’azienda, di fronte a uno spread che in patria non accenna a diminuire, che il 26 luglio 2012 Draghi pronuncia, sembra di getto, quelle che Christine Lagarde ha poi definito «le parole più potenti nella storia delle banche centrali». «Entro il nostro mandato, la BCE è pronta a fare qualsiasi cosa per mantenere l’euro. E credetemi, basterà». è qui che nasce l’epiteto di Super Mario perché con il suo “bazooka” monetario, tutto l’arsenale di cui dispone la Bce, salva la moneta unica e in fondo il progetto stesso di Unione europea, che stava rischiando di affondare.
Quando lascia la poltrona Draghi non fa intuire quali saranno i suoi programmi futuri. Vive tra Roma e Città della Pieve, si concede pochissimi interventi, ma sono di quelli che lasciano il segno nel dibattito pubblico: all’inizio della pandemia, nel 2020, in un suo editoriale sul Financial Times spiega che non bisogna più preoccuparsi del debito pubblico: lo Stato deve controllare le banche e farle creare denaro per imprese e famiglie. Questo significa che bisogna fare deficit non del 2%, ma dell’8 o 10% del PIL per evitare una depressione economica gravissima. Draghi non a caso ha citato le due guerre in cui il deficit era esploso e solo una piccola parte era finanziato dalle tasse, il resto avveniva stampando moneta.
Prima erano solo parole. Ora che si trova alla guida del Paese gran parte della sua concentrazione sarà finalizzata a spendere bene i 209 miliardi che l’Europa ha in serbo per l’Italia, di cui 82 miliardi a fondo perduto e 127 di prestiti da restituire. Entro il 30 aprile, infatti, vanno presentati i progetti, dopo di che la Commissione ha due mesi di tempo per valutarli. Per cui se l’Italia vuole incassare la prima tranche (il 13% del totale) deve fare in fretta. Ma c’è un altro vincolo imposto dalla UE per ottenere il denaro e si chiama riforme. Su tutte, quella della giustizia, della pubblica amministrazione, delle pensioni e del lavoro. E l’ex presidente della BCE è qui per questo e non lo nasconde. Il primo banco di prova sarà la fine del blocco dei licenziamenti che scade il 31 marzo. Il crollo del PIL e il rallentamento dell’economia potrebbero spazzare via fino a due milioni di posti di lavoro. Finora ne sono stati persi 600 mila e lo scorso anno lo Stato italiano ha erogato quattro miliardi di ore di cassa integrazione Covid per sostenere le imprese in difficoltà. Un’enormità. Ma si sa che Draghi è contrario ai sussidi. Come fare allora? In alcuni incontri pubblici ha spiegato chiaramente che il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che oggi sono giovani. Loro, insieme alla digitalizzazione del Paese, saranno quindi al centro del suo programma perché come ha aggiunto «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».
Ma per pensare al futuro dobbiamo combattere il presente: per questo non ci resta che affidarci a Super Mario e sperare che anche in questo caso usi il suo storico “Whatever it takes” per difendere l’Italia e il nostro avvenire.