Il film “La società della neve” racconta la storia del disastro aereo del ’72. Ma cosa sarebbe cambiato se quello schianto fosse avvenuto oggi?

Il 10 marzo 2024 si è tenuta al Dolby Theatre di Los Angeles la 96esima edizione dei premi Oscar. In gara come miglior film straniero c’era anche il film Netflix “La società della Neve”, del regista Juan Antonio Bayona, con Rafael Federman e Esteban Bigliardi a guidare il cast. La statuetta è andata al concorrente La zona d’interesse di Jonathan Glazer (che ha vinto anche il Miglior Sonoro)

Per quanto riguarda gli altri premi, Oppenheimer di Cristopher Nolan ha fatto mambassa di statuette: Miglior Film, Miglior Attore Protagonista a Cillian Murphy, Miglior Attore non protagonista a Robert Downey Jr., Miglior Regia, Miglior Montaggio, Miglior Fotografia e Miglior Colonna Sonora.

Povere Creature di Lanthimos ha vinto il premio per la Miglior Attrice Protagonista a Emma Stone, Migliori Costumi, Migliore Scenografia, Miglior Trucco e Acconciature.

Miglior Attrice non protagonista è stata Da’Vine Joy Randolph, per il ruolo in The Holdovers. Hayao Miyazaki con il suo “Il ragazzo e l’airone” ha vinto il premio Miglior Film d’Animazione. Anatomia di una caduta Miglior Sceneggiatura originale e American Fiction Miglior Sceneggiatura Non Originale.

Una sola statuetta per Barbie: “What was I Made For?” di Billie Eilish e Finneas O’Connell ha vinto la miglior canzone.

La società della neve

La pellicola racconta la storia del disastro aereo del 13 ottobre 1972, quando il volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana si schiantò sulle Ande con 45 persone a bordo. Ne sopravvissero soltanto 16, che vennero ritrovate 72 giorni dopo. Il film più celebre su questo argomento, almeno fino a oggi, è “Alive – Sopravvissuti” di Frank Marshall, uscito nel 1993 e basato sul racconto di quei 72 terribili giorni durante i quali i superstiti dello schianto, ritrovatisi in condizioni estreme, pur di sopravvivere fecero qualunque cosa potessero fare. Compreso mangiare i cadaveri dei compagni caduti. Oggi, “La società della neve” aggiunge un altro livello di lettura, come chiaro già dal titolo: il film di Bayona mette al centro della storia le relazioni umane, mostrando come le persone possano riuscire a rimanere insieme e trovare una soluzione in condizioni estreme, spesso più facilmente che non nella vita quotidiana. 

Facciamo un passo indietro.

La vera storia del volo 571

I resti del volo 571. ANSA/EPA

Era il 13 ottobre del 1972. A bordo del volo charter 571, i membri della squadra di rugby Old Christians Club, insieme ad amici e familiari, viaggiavano verso Santiago, in Cile. Erano decollati da Montevideo, in Uruguay: dei 45 passeggeri ce n’era solo uno che non aveva legami con il resto della squadra. Seduto al posto di comando c’era il colonnello Julio César Ferradas, il co pilota era il tenente colonnello Dante Lagurara: poco prima di raggiungere la destinazione, il militare chiese all’aeroporto di Santiago il permesso di atterrare e l’aereo iniziò a scendere. Ma davanti non aveva la pista d’atterraggio della città cilena: aveva la vetta gelida di un ghiacciaio isolato vicino al monte El Sosneado, nella provincia di Mendoza. In Argentina. I due piloti avevano calcolato male la posizione dell’aereo e così, persa la rotta oltre la coltre di nubi, gli fu impossibile evitare lo schianto. 

Delle 45 persone a bordo, ne sopravvissero 33, che riuscirono a tirarsi fuori dai rottami dell’aereo e a far uscire anche gli altri. Ma a quel punto, si trovarono nel mezzo delle Ande ghiacciate, impossibilitati a chiedere e ricevere aiuto, con temperature sotto zero e poco ossigeno, senza medicine, fonti di calore. E con poco cibo: dai resti dell’aereo recuperarono caramelle, vino e marmellate, ma non era abbastanza per poter sopravvivere sulle lunghe distanze.

Le Ande, il luogo dello schianto. ANSA/EPA

Bisogna considerare anche che, a quell’altezza, le bufere di neve ricoprivano a ogni pié sospinto il gruppo con diversi metri di neve: alcuni di loro erano feriti, il panico dilagava. Per sopravvivere, i superstiti dello schianto costruirono dei rifugi con i bagagli e con i rivestimenti dei sedili dell’aereo, in modo da ottenere muri e coperte. 

Non era sufficiente, ovviamente. Nell’arco dei primi 10 giorni, come spaventosi Hunger Games anzitempo, morirono altre 6 persone: e anche gli altri cominciavano a essere troppo deboli per sopravvivere alle temperature rigide e alle privazioni. In un primo tempo fu difficile procurarsi anche da bere, perché la neve era complessa da sciogliere. Quando la fame è diventata la nemica principale, il gruppo di rimanenti ha fatto una scelta estrema per salvarsi la vita. 

Roberto Canessa, uno dei sopravvissuti. EPA/RAUL MARTINEZ

Non dimenticherò mai quella prima incisione, quando ogni uomo era solo con la sua coscienza su quella cima infinita, in un giorno più freddo e più grigio di tutti quelli precedenti o successivi. Noi quattro, ognuno con una lametta o un frammento di vetro in mano, tagliammo con cura i vestiti da un corpo il cui volto non potevamo sopportare di guardare“: il racconto di uno dei sopravvissuti, Roberto Canessa, riportato nel libro-memoir uscito nel 2016 e intitolato “Dovevo sopravvivere“, spiega in modo semplice e tuttavia difficile, doloroso, ciò che è accaduto. I superstiti, per salvarsi appunto, cominciarono a mangiare i corpi dei compagni caduti. Fu brutale: ma funzionò. 

I resti di un’ala dell’aereo 571. ANSA/EPA

Circa due settimane dopo lo schianto, nel pomeriggio del 29 ottobre, una valanga di neve si abbatté sui sopravvissuti mentre riposavano nel loro rifugio improvvisato: l’aereo venne completamente sepolto. Morirono altre 8 persone. A dicembre, il gruppo era sceso a 16: dopo settimane dall’inizio dell’incubo si resero conto che nessuno sarebbe venuto a salvarli. Così i tre più giovani, Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintìn, partirono per la disperata missione di scalare la montagna per trovare aiuto dall’altra parte. Dopo tre giorni Vizintìn tornò all’accampamento: le razioni non bastavano per tutti e tre e, da soli, Canessa e Parrado avevano maggiori probabilità di riuscita. Dopo una settimana di cammino, i due incontrarono un mandriano cileno, Sergio Catalàn Martìnez, che si trovava sulla sponda opposta di un ruscello. Scrissero un biglietto: “vengo da un aereo precipitato sulle montagne. Sono uruguaiano. Stiamo camminando da circa 10 giorni. Nell’aereo sono rimaste altre 14 persone. Anche loro sono feriti. Non hanno nulla da mangiare e non possono andarsene. Non possiamo camminare oltre. Per favore, venite a prenderci“. Martìnez portò il biglietto a destinazione: il giorno dopo, vale a dire 72 giorni dopo il disastro aereo, i sopravvissuti del volo 571 vennero salvati. I corpi dei caduti non avrebbero invece mai lasciato le Ande.

Foto dalla missione di soccorso. ANSA/EPA

Al rientro in società, dapprima si gridò al “miracolo delle Ande”, ma subito dopo comparve l’orrore per gli atti di cannibalismo compiuti dal gruppo per rimanere in vita. Canessa, in un’intervista al Washington Post rilasciata nel 1978, dichiarò che “non ci si può sentire in colpa per aver fatto qualcosa che non si è scelto di fare“. Ma nel suo libro autobiografico aggiunse: “per noi, fare questo salto è stata una rottura definitiva, e le conseguenze sono state irreversibili: non siamo più stati gli stessi”.

La dinamica del film, metafora dei tempi odierni

Il nuovo film Netflix in corsa agli Oscar rilegge la storia del disastro sulle Ande aggiungendo un altro livello di lettura: come da titolo, l’interesse del regista era posizionare l’obiettivo non tanto sulla tragedia in sé quanto sulle dinamiche umane che si sono instaurate tra i sopravvissuti. Il film diventa così metafora della società attuale ma anche indagine antropologica sulla figura umana: i personaggi vengono riscritti da “zero” dopo il “big bang” come se l’incidente aereo li avesse portati a un nuovo stadio “nullo” e dovessero reinventarsi da quel momento in avanti. La “società” che si crea a quel punto ha un solo vero obiettivo: che tutti sopravvivano. 

Turisti in visita nella zona dello schianto. ANSA/EPA/RONCORONI

Tragedia e cambiamento climatico, parola all’esperto

Secondo uno studio pubblicato da National Geographic, esiste la possibilità che, se l’incidente del volo 571 fosse accaduto oggi ci sarebbero stati molti più sopravvissuti, almeno considerando le condizioni climatiche. Sulle Ande infatti, le precipitazioni nevose stanno diminuendo: la Valle delle Lacrime, il luogo dove l’incidente è effettivamente avvenuto, ha perso circa il 12% di manto nevoso per ogni decennio e tra il 2010 e il 2019 la siccità nevosa è stata allarmante. Il luogo ricostruito nel film è oggi più secco e più caldo, una differenza abissale se si pensa che nel 1972 ci fu addirittura una nevicata superiore alla media. Partendo da questo presupposto bisogna fare due considerazioni: da un lato, se l’aereo si fosse schiantato su un terreno più asciutto, con meno neve, secondo alcuni esperti di aviazione si sarebbe distrutto e dunque è presumibile che pochissimi se non nessuno sarebbe sopravvissuto; dall’altro lato però, se invece accettiamo il punto di partenza dell’episodio – e del film – e immaginiamo i 33 superstiti uscire dai rottami su un paesaggio meno gelido di quello reale, allora la storia sarebbe potuta andare in modo diverso. 

Lo abbiamo chiesto al climatologo Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana. 

Il climatologo Luca Mercalli. ANSA/ LORENZO ZAMBELLO

Professore, le mutate condizioni meteo quanto condizionano la pericolosità della montagna? 

«Stiamo attraversando un momento di declino globale della neve. Soltanto sulle Alpi negli ultimi 50 anni abbiamo avuto un mese di neve in meno e una situazione simile si è verificata senza dubbio anche sulle Ande, che hanno avuto la loro diminuzione sia di neve sia di ghiaccio. Tuttavia, secondo la mia opinione, se ci atteniamo a ciò che sappiamo dell’incidente del ‘72, non sarebbe cambiato granché: anche se nevica meno non è che i pericoli cessino di colpo. Il freddo, neve o non neve, è un nemico arduo: bastano poche ore per morire se non adeguatamente coperti in condizioni di meno 20, meno 25 gradi. Il mio parere è che i superstiti avrebbero sicuramente trovato condizioni un po’ più facili dal punto di vista del percorso per scendere, parlo di quelli che si sono messi in cammino per raggiungere un luogo abitato; qualche semplificazione in questo senso l’avrebbero avuta ma non andrei a dare rilevanza esclusivamente al cambiamento climatico per cambiare le sorti di un evento tragico di quel tipo».

Ha parlato di declino globale della neve. Quali sono i rischi? 

«Il rischio maggiore è la minore disponibilità di acqua. Le catene montuose sono una riserva idrica fondamentale per tutti i Paesi a valle, sono dei veri e propri serbatoi d’acqua per l’agricoltura, non solo per le regioni alpine ma anche per quelle più abitate a latitudine inferiore; tanto sulle Alpi quanto sull’Himalaya, sulle Ande, se neve e ghiacciai diminuiscono c’è meno acqua per la vita delle popolazioni e per l’agricoltura e questo rappresenta un rischio enorme per tutti»

Febbraio è stato il più caldo di sempre secondo Copernicus. Cosa possiamo aspettarci per la stagione estiva?

«È difficile fare previsioni significative così a lungo termine, quindi non possiamo saperlo. Se guardiamo il trend ovviamente, essendo da più di un anno che stiamo sfondando tutti i record, possiamo dire in modo molto generico che ci sono grosse probabilità che tutto il 2024 sarà un anno al di sopra della media come caldo; è ragionevole pensarlo, ma è difficile fare ipotesi su una zona del mondo specifica. A livello medio planetario potrebbe esserci caldo sopra la media, ma nelle singole città potrebbe per esempio essere particolarmente fresca la prima e bollente la seconda. Alla fine, conta solo il valore medio globale rilevato dai satelliti. Sulla mappa di Copernicus ci sono tante zone rosse e poi qualche zona azzurra: queste ultime sono le più fredde, ma siccome quelle rosse sono prevalenti, allora si dice che mediamente la terra è più caldo. Però, per quel 5% ipotetico che vive nelle zone “azzurre” si tratterà di una stagione fresca. A livello globale è la media che conta».

Quali sono i pericoli più grandi del cambiamento di temperatura di oceani e ghiacciai? 

«Ci sono legami importanti tra oceani e ghiacci, e bisogna considerare che gli uni si stanno scaldando e gli altri si stanno sciogliendo. Il ghiacciaio che si scioglie fa aumentare il livello del mare e questo è un rischio enorme per il futuro dell’umanità, perché rischiamo di veder sommergere molte aree abitate nelle zone costiere: basti pensare a Venezia, al Delta del Po, ai Paesi Bassi, per rimanere in Europa; ma poi anche la Florida, il Bangladesh: abbiamo tantissime zone molto abitate che potrebbero finire sott’acqua via via che la Groenlandia fonde. In più c’è il rischio di un’accelerazione: più si scaldano gli oceani più il ghiaccio si fonde, e più il ghiaccio si fonde più l’acqua si alza. Questo significa anche che l’acqua dell’oceano arriva a lambire sempre più in alto il ghiacciaio e accelera la fusione».

Ha citato la Groenlandia.

«Sì, perché è la zona di ghiacci polari più fragile che abbiamo. Anche il Polo Sud è a rischio ma per il momento è più stabile, contribuisce all’innalzamento delle acque ma meno. Il maggior rischio arriva – per ora – dalla Groenlandia».

Un altare nella zona dello schianto. ANSA/EPA

Insomma, è presumibile che il destino dei superstiti del volo 571 schiantatosi sulle Ande non sarebbe cambiato, nemmeno se l’incidente fosse avvenuto in un momento diverso, con meno neve o con temperature più elevate. Ma, se non ci sarà una presa di coscienza e un’inversione di rotta generale, è possibile che nemmeno il destino dell’umanità cambi: il cambiamento climatico sta facendo più danni di quelli di un aereo in rotta di collisione su un ghiacciaio e servono azioni mirate che possano fermare davvero questo declino, prima che sia troppo tardi per cambiare rotta.

di: Micaela FERRARO

FOTO: SHUTTERSTOCK