Un approfondimento della professoressa Angela Gadducci

di: Angela GADDUCCI

Settantacinque anni fa, in seguito alla dichiarazione d’indipendenza israeliana, veniva proclamata la costituzione del Medinat Isra’el. Figlio dell’impero britannico seppur ottomano alla radice, la nascita dello Stato d’Israele avvenne il 14 maggio 1948 (il 5 Iyar -ottavo mese- secondo il calendario ebraico), anno in cui le superpotenze vincitrici del secondo conflitto mondiale erano particolarmente concentrate sul vecchio continente europeo: da una parte, l’Unione Sovietica manteneva il controllo sull’Europa orientale; dall’altra, gli Stati Uniti ne controllavano la parte occidentale, contribuendo -in forza del Piano Marshall- alla ricostruzione di un’Europa distrutta dalla guerra.

All’annuncio del suo riconoscimento come entità statuale fece sèguito -nell’arco dei successivi 25 anni di esistenza- una lunga serie di guerre e attriti che, impegnando le forze di difesa israeliane (IDF) in maniera pressoché costante, condizionarono la storia e la società non solo israeliana, ma anche di tutti i Paesi arabi vicini e di quelli dell’area mediorientale. (Siria, Libano, Giordania, Iraq, l’Egitto, Yemen e Arabia Saudita). Nessuno dubitava che, una volta proclamato lo Stato d’Israele, gli Stati arabi si sarebbero impegnati in rappresaglie e l’avrebbero attaccato. Senonché, per quanto inferiore fosse sia per unità di combattenti che di armamenti, lo Stato di Israele è sempre riuscito a fronteggiare il rischio di essere militarmente sopraffatto grazie alla totale e sentita partecipazione al conflitto di tutto il popolo israeliano, un popolo combattente e tenacemente indefesso. In ogni caso, già dopo la prima guerra arabo-israeliana(1947-1949), il popolo d’Israele, nonostante i successi bellici ottenuti contro le popolazioni arabe confinanti, era ben consapevole dei problemi che minacciavano la sicurezza del neonato Stato: gli armistizi stipulati con i Paesi limitrofi ampliarono le frontiere israeliane ben oltre i limiti territoriali stabiliti dal Piano di spartizione della Palestina previsto dalla risoluzione ONU del 1947 e ciò comportò per lo Stato ebraico la sensazione che quel conflitto avrebbe avuto un sèguito. Previsione che si rivelò profetica: nel corso dei conflitti che si avvicendarono successivamente alla fine della prima cosiddetta ‘guerra d’indipendenza’ arabo-israeliana (la Crisi di Suez nel 1956, la Guerra dei sei giorni nel 1967, la Guerra d’attrito 1967-1970 e la Guerra del Kippur nel 1973), lo Stato ebraico imparò a vivere in uno stato di incertezza e di tensione continua, dovuti alla necessità di garantire la sopravvivenza dello Stato, difenderne l’integrità territoriale, salvaguardare la sicurezza e la libertà della popolazione israeliana, e il suo diritto ad esistere. 

Il 1973 pose fine alle guerre arabo-israeliane propriamente dette, anche se forse sarebbe più opportuno parlare di un unico lungo conflitto con il mondo arabo che, dal lontano 1947, si protrasse fino ai giorni nostri: tra il 1987 e il 1993 si svolse la 1^ intifada palestinese che sfociò negli Accordi di Oslo del 1993; un altro violento scontro israelo-palestinese, noto come  2^ intifada, riesplose nel 2000 e si concluse con il vertice di pace di Camp David; tra il 2008 e il 2014 ulteriori attentati terroristici non ebbero riscontro in una rivolta chiaramente identificabile con la 3^ intifada che, invece, scoppiò nel 2015 e fu denominata “l’intifada dei coltelli”, per il fatto che la maggior parte degli attacchi palestinesi furono perpetrati con armi da taglio. Gli Accordi di Abramo del 2020 delinearono l’avvio di una nuova epoca: fortemente sostenuti dagli Stati Uniti per il raggiungimento della pace regionale ed euro/atlantica, sancirono la prima normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti e si tradussero in collaborazioni di rilievo, soprattutto nel campo economico e in quello della difesa. 

Oggi Israele sta attraversando una crisi politica e sociale senza precedenti innescata dalla controversa riforma giudiziaria, varata dalla Knesset su iniziativa di Netanyahu, per circoscrivere il potere della Corte suprema a favore dei poteri esecutivo e legislativo. Questa censoria proposta di governo, che per la sua portata equivale ad un vero e proprio sovvertimento del sistema governativo, ha scatenato veementi e ampie proteste coinvolgendo, in modo inedito, vasti settori del mondo istituzionale ed economico, oltrechè degli apparati di Difesa (esercito, aviazione, intelligence); dissensi, che continuano ad intensificarsi ed espandersi nonostante l’annuncio -il 27 marzo u.s.- di una “messa in pausa” della proposta di legge fino all’estate per consentirne indagini e approfondimenti.

La verità è che, al di là della riforma giudiziaria, il Paese sta vivendo un’imponente fase di instabilità politica e sociale. A tal proposito merita ricordare come dal 2019 ad oggi siano state indette ben 5 elezioni tese alla conferma di Netanyahu, per la 6^ volta premier nella storia del Paese[1]: le ultime elezioni del 1° novembre 2022 lo hanno riconfermato alla guida del governo, entro il quale sembra muoversi come se Israele fosse una repubblica presidenziale anziché parlamentare. Ma la vitalità della democrazia israeliana è messa a dura prova, anche e soprattutto, dalla frammentazione socio-storica e culturale che parcellizza il Paese fin dalla nascita, tale da comprometterne la coesione e incrinarne la stabilità. Sarebbe, pertanto, riduttivo leggere gli avvenimenti correnti solo come mobilitazione democratica contro una legge riformista. La vera ragione della profonda disgregazione interna al Paese è che la nascita dello Stato di Israele non ha comportato lo sviluppo di una identità nazionale, perchè nel 1948 quel piccolo rilievo statuale è sorto e cresciuto senza un Testo costituzionale che, in maniera cogente, ne rappresentasse la carta d’identità. D’altra parte, la condizione di un’identità collettiva, come sentimento di appartenenza ad una nazione i cui individui condividono la stessa visione del mondo e sono uniti dai medesimi ideali e da usanze, norme e credenze comuni, confliggerebbe con la natura stessa dello Stato ebraico che al suo interno brulica di una miriade di identità irriducibilmente conflittuali. 

Configurandosi come un Paese in perenne tensione tra natura ebraica, di carattere etnico-confessionale, e natura democratica, offre rifugio ad arabi, in larga parte musulmani, a perseguitati, a cominciare dai sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche a cristiani e ad altre minoranze etniche o religiose. Ricalcando la ripartizione in tribù di rivliniana memoria[2], le faglie tra le maggiori rappresentanze popolari presenti al suo interno fanno riferimento ad una popolazione variegata e trasversale. La spaccatura principale è tra l’etnia ebraica e quella araba, ognuna delle quali presenta molteplici sfumature interne: la maggioranza ebraica (75%), disomogenea come credenze e origine, accoglie al proprio interno gli ashkenaziti (ebrei provenienti dall’Europa nord-orientale), i sefarditi(ebrei provienti dal Nord Africa, lo Yemen e altri paesi arabi), i sionisti-laici e i sionisti-religiosi oltrechè frange di ebrei ultraortodossi (Haredim); la minoranza araba(quasi interamente musulmana, ma anche cristiana e drusa), pur attestandosi al 21% della totalità degli abitanti, rappresenta un segmento demografico molto prolifico, con un alto tasso di crescita. 

La mancanza di dialogo non fa che aumentare tensione, paura e ostilità tra le diverse frange. Ed è proprio per questa eterogeneità etno-culturale-religiosa, accompagnata da incompatibilità ideologico-linguistiche e ancorata a vecchi rancori e a mal sopite rivendicazioni, che lo Stato di Israele non può addivenire ad un Patto costituzionale che prelude l’esistenza di un’identità condivisa. 

Pervaso da fremiti di insicurezza e provvisorietà per queste asimmetrie irrisolte, lo Stato nazionale del popolo ebraico[3] si delinea come uno Stato incompiuto. 

La dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948 annunciava che la Costituzione sarebbe stata emanata da un’Assemblea costituente eletta, non più tardi del 1° ottobre 1948. In realtà, ciò non è mai avvenuto: aggredito, a quell’epoca, da una coalizione di Paesi arabi, Israele non ebbe la possibilità di dedicarvisi; ma non lo farà neppure l’anno successivo, dopo aver vinto e cacciato gran parte dei palestinesi, e neanche negli anni a venire. Eppure, nel 1949 venne eletta una Costituente che fin da subito si qualificò come il corpo legislativo del nuovo Stato mediorentale. Senonchè, dopo il fallimento di ben 9 accesi dibattiti costituzionali, la questione venne rimandata indefinitamente. Causa: gli squilibri insiti nell’eterogeneità delle componenti etniche, culturali e religiose che attraversano lo Stato fin dagli esordi. 

In questo Stato che manca di una Carta scritta, il fulcro delle azioni di protesta riguarda la legittimità delle istituzioni. E’ la carenza di legittimazione delle istituzioni che, accumulata in decenni di latenza, esplode oggi nelle piazze; è l’assalto alle istituzioni ciò che offende profondamente chi ha a cuore il sistema democratico. 

Dopo la shoah, le cui cicatrici -mai cancellate- si tramandano di generazione in generazione quasi fossero parte integrante del popolo ebraico, ciò che legittima il fervore e l’energica operosità di Israele, da sempre oggetto di minacce belliche, persecuzioni, terrorismo e delegittimazione a livello internazionale, è il diritto alla protezione e all’autodifesa di un popolo che si sente costantemente sotto assedio e che sin dalla nascita versa in perenne stato di emergenza.

NOTE

[1] Netanyahu ha governato dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 ed è tornato in carica dal 1° novembre 2022. 

[2] Nel discorso pronunciato il 7 giugno 2015, l’ex presidente Rivlin, a proposito della segmentazione interna alla società ebraica, parlò di “tribù incomunicabili”: la tribù sionista-laica, la tribù sionista-religiosa, la tribù ultraortodossa e la tribù araba.

[3] Il 19 luglio 2018 la Knesset approvò la “Legge fondamentale: Israele quale Stato nazionale del popolo ebraico”, statuendo che Israele è lo Stato degli ebrei.

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