Di lui si è detto che era geniale e impertinente, lo si è chiamato “dandy”, “pioniere”, “femminista”. Ma chi era davvero il “papà” di Dorian Gray?
Il 2024 segna il 170esimo anniversario di nascita di Oscar Wilde, caposaldo della letteratura inglese che con la sua penna ha incantato generazioni di lettori e travalicato i confini del tempo. Di lui si è detto davvero di tutto: lo si è definito geniale e impertinente, gli si è data l’etichetta di “dandy”, di “pioniere”, di “femminista”, qualcuno lo considera persino il “primo influencer della storia”. Famoso per le sue opere tanto quanto per il suo essere, l’irlandese è un’icona che – nonostante ciò che si potrebbe pensare – non ha mai avuto, in vita, il riconoscimento che avrebbe meritato.
Nel tracciare la storia di Oscar Wilde viene dato pochissimo spazio ai suoi ultimi anni di vita; non si sa quasi nulla del Wilde che denuncia le condizioni delle galere inglesi tramite lettere che poi contribuiranno a rendere possibile la riforma delle carceri; non si sa quasi nulla del modo in cui combatté per i diritti civili delle persone omosessuali. Non si sa quasi nulla nemmeno dell’Oscar Wilde marito, padre, e non si parla abbastanza della sua ultima opera, scritta in carcere e ultimata in Italia. C’è uno spartiacque nella storia che viene raccontata tradizionalmente: l’infanzia dorata, l’adolescenza trasgressiva e la prima parte della vita adulta trascorsa negli agi, nei vizi, la penna che vibrava in mano rapida e pungente come la sua lingua che incantava il pubblico, abile oratore qual era. Ma ci si affretta sempre sulle parti più tristi e meno conosciute della sua esistenza che raccontano una vera e propria “storia nella storia” e che Il Mondo ha indagato avvalendosi dell’aiuto di esperti e dell’unico nipote vivente di Wilde in persona, Merlin Holland.
Ma facciamo un passo indietro.
C’era una volta la famiglia Wilde

Oscar Fingal O Flahertie Wills Wilde (all’anagrafe) è nato a Dublino il 16 ottobre del 1854 in una casa modesta al numero 21 di Westland Row. Secondo di tre figli (William Robert Kingsbury Wills Wilde, nato il 26 settembre 1852, il primogenito, e la minore Isola Francesca Emily Wilde nata il 2 aprile 1857), viene al mondo in un momento in cui la sua famiglia versa in condizioni di indigenza, seppur passeggera. È ancora piccolo quando i Wilde si trasferiscono in una casa più ricca nel quartiere di Merrion Square. Viene battezzato il primo aprile del 1855 e la madre, una donna formidabile che sarebbe passata alla storia con il nome di Lady Speranza (in italiano) chiede a sir William Rowan Hamilton di far da padrino al bambino. Hamilton rifiuta e tutta la vicenda legata al suo battesimo diventa in seguito ispirazione per l’opera L’importanza di chiamarsi Ernesto. A proposito di sua madre, si chiamava Jane Francesca Agnes Elgee ed era una poetessa e una linguista affermata che aveva pubblicato diverse opere a favore della Giovane Irlanda. Il suo motto, da cui lo pseudonimo, era “Fidanza, speranza, costanza” e fu una figura di grande rilevanza per Oscar: non solo le somigliava nell’aspetto ma aveva ereditato da lei alcune innegabili qualità, quali l’arte oratoria, la passione per la letteratura, e una certa tendenza all’eccentricità. Suo padre, sir William Robert Wills Wilde, era un celebre oftalmologo e aveva firmato alcuni trattati medici che sarebbero stati ritenuti validi per moltissimo tempo. Fra i suoi pazienti più illustri vantava re Oscar I di Svezia e la regina Vittoria in persona, di cui divenne oculista personale. Tuttavia la sua fama di medico venne offuscata quando fu accusato di stupro ai danni di una ragazza di 19 anni, Mary Travers; il processo si concluse con la condanna al risarcimento danni per una somma di duemila sterline.
L’educazione impartita a Wilde è esemplare: studia in casa fino ai 9 anni, poi viene mandato alla Portora Royal School come suo fratello maggiore e in seguito frequenta il Trinity College di Dublino che gli da l’accesso all’università di Oxford dove studia con passione i classici greci. Sveglio, vivace, intelligente, diventa famoso nei salotti e nei circoli letterari grazie alla sua prima raccolta di poesie, Poems, e la sua arte oratorio lo aiuta a farsi strada nell’ambiente. Il 29 maggio del 1884, a 30 anni esatti, sposa una connazionale con cui condivide passioni e stile di vita, lady Constance Lloyd.
E ben presto, arriva il successo.

“L’amore che non osa dire il suo nome”
Negli anni 80 dell’800, a Londra, Oscar Wilde è all’apice del successo. È uno scrittore affermato, è richiesto nei migliori salotti culturali della città, è l’uomo del momento: bello, elegante, raffinato, tutti vogliono parlare con lui, tutti vogliono la sua opinione, la sua energia e la sua creatività paiono inesauribili. Mentre gli occhi della società lo inseguono, i suoi sono fermi su un personaggio piuttosto eclettico: Alfred Douglas è giovane, viziato, insolente, passa le sue giornate a giocare d’azzardo e flirtare con altri esponenti dell’alta società, e tra lui e Wilde si instaura una tensione sensuale a cui molto presto l’irlandese cede, benché sia ancora sposato con Lady Constance Lloyd. La sua omosessualità non è un segreto a Londra ma, nonostante sia considerata un reato, la società è disposta a “tollerare” quelli che vengono definiti “vizi” dell’èlite londinese. Oscar e Alfred però sono sempre più sfacciati e il padre di quest’ultimo, il marchese di Queensberry, venuto a conoscenza della relazione scrive un biglietto a Wilde nel quale gli dà del “ruffiano” e del “sodomita”. Invece di lasciar cadere la questione, lo scrittore denuncia Queensberry per diffamazione, convinto di poter vincere la causa. Non va così e non solo il marchese viene assolto ma poche ore dopo la sentenza Wilde viene arrestato e condannato a due anni di prigionia e lavori forzati per “indecenza grave”. Quando le porte della galera britannica si chiudono alle sue spalle, inizia un nuovo capitolo della sua vita: il più buio, il più difficile. In quegli anni Wilde conobbe di persona la durezza del modello carcerario dell’Inghilterra della regina Vittoria. Perse molti chili in poco tempo, la sua salute peggiorò; un giorno, nella cappella svenne e riportò seri danni all’orecchio destro. Quest’ultimo avvenimento e l’attenzione mediatica sul suo caso gli valsero un miglioramento nelle condizioni di vita: cambiò carcere due volte e infine gli vennero fornite carta e penna, con cui poté scrivere quella che sarebbe diventata una delle sue migliori opere in prosa, una lunga e amarissima lettera a Douglas, da lui chiamato Bosie, che mai era andato a trovarlo peraltro: il De Profundis.
Abbiamo parlato di questo periodo con la dottoressa Laura Guglielmi, autrice del romanzo Lady Constance Lloyd, l’importanza di chiamarsi Wilde.
Professoressa, che tipo di donna era Lady Lloyd?
«Era una ragazza intelligente, intraprendente. All’epoca le donne non potevano andare all’università in Inghilterra quindi lei cercava di studiare a modo suo, da autodidatta perlopiù. Non poteva quindi contare su una preparazione oxfordiana come quella di Oscar Wilde, che ha potuto godere dei migliori college e delle migliori università, ma era comunque molto istruita. Questo era stato possibile soprattutto grazie al fratello, molto liberale: Constance poteva uscire liberamente, visitava le mostre, aveva interessi vicini all’estetismo, era molto affascinata dai Preraffaeliti. Conosceva Wilde di fama, naturalmente: all’epoca lui non era ancora uno scrittore rinomato ma era un grande oratore, molto conosciuto anche oltre oceano. Era un periodo complicato per Constance: non voleva sposarsi, ma il nonno – benestante – voleva vederla sistemarsi prima di morire. L’incontro con Wilde avvenne a una soirée a cui erano invitati entrambi: erano connazionali, lei era affascinata dal suo modo di fare e lui rimase folgorato perché la prima volta che la vide, stava leggendo in italiano la Divina Commedia, la massima opera esistente in occidente, peraltro in una lingua che non era la sua. Si sono sposati poco dopo».
Che tipo di matrimonio fu il loro?
«I coniugi Wilde erano legati da un profondo affetto e da una grande stima reciproca. C’era dell’interesse, in qualche forma: lei lo aveva scelto perché era il tipo di marito perfetto, le avrebbe lasciato fare la vita che voleva, non era il consorte padrone che la comandava, o governava; aveva d’altronde altri interessi lui stesso da perseguire e su molti erano allineati. Lei fu una pioniera dei diritti delle donne e per certi versi anche lui: è vero che ci sono certe sue frasi maschiliste ma vanno sempre contestualizzate: per essere un uomo nato e cresciuto in epoca vittoriana, era più che mai femminista, davvero. E lei dal suo canto, grazie al cognome di lui, poteva continuare a scrivere, a viaggiare. Fu responsabile della rivoluzione degli abiti tramite una rivista che diresse per un periodo, consigliò alle donne modi più pratici per vestirsi, inventò la gonna pantalone e non usò mai il corsetto. Erano una coppia felice, ed erano molto amati, sempre sulla bocca di tutti nella Londra intellettuale e mondana. Non era un matrimonio di comodo: lui non aveva ancora amanti, in quel primo periodo, e forse non aveva ancora piena coscienza della sua sessualità».
Con l’arrivo di Robert Ross tutto cambia.
«Sì, più o meno. Constance era incinta del suo secondo figlio (Vyvyan, che avrebbe poi scritto il fortunato libro “Essere figlio di Oscar Wilde”, ndA) quando Oscar conobbe Ross: aveva 17 anni, era canadese, era estremamente influente. Fu lui a sedurre Wilde, a fargli scoprire la sua sessualità appunto. Ma indipendentemente che fosse gay o bisessuale, Wilde rimase un marito e un padre amorevole e abbiamo motivo di credere che Constance avesse accettato di buon grado tanto la sua omosessualità quanto le sue scappatelle».
Che padre era Oscar Wilde?
«Incredibilmente affettuoso. All’epoca della regina Vittoria i padri non li vedevano neanche, i figli, nemmeno a cena per intenderci: erano completamente isolati. Wilde invece era giocoso e amorevole, si buttava per terra per giocare con loro, inventava di sana pianta giochi nuovi con cui intrattenerli, passava ore con i piccoli Cyril e Vyvyan. D’altronde come dicevo erano una coppia moderna, lui e Constance: lei non faceva la “moglie vittoriana”, anzi. Girava, incontrava gente, viaggiava. Finché Oscar non incontrò Bosie, il loro equilibrio fu perfetto».
Bosie, l’amante storico di Wilde, cambiò tutto per sempre. Come?
«Come dicevo poc’anzi, Constance aveva accettato di buon grado l’omosessualità del marito e i suoi amanti. Robert Ross diventò un grande amico anche di lei, fu l’esecutore testamentario, l’aiutò a gestire gli affari quando Oscar finì in galera. Ma Bosie (soprannome dato da Wilde all’amante Alfred Douglas) era un altro paio di maniche. Era capricciosissimo, pretendeva la completa attenzione di Wilde, era tutto un vortice fatto di cene, alberghi costosi, regali extra lusso… insomma. E Oscar Wilde perse completamente la testa per Douglas, fu davvero l’inizio della fine».
La relazione porterà Wilde in prigione. Come furono a seguire i rapporti con Constance?
«Nel periodo del carcere lei andò a trovarlo spesso, benché stesse passando un periodo davvero difficile. Era dovuta fuggire dall’Inghilterra, perché i suoi figli non erano più accettati nelle scuole del Paese; ha cambiato cognome (in Holland), ha cercato di vivere dapprima in Svizzera con il fratello e poi si è spostata in Italia, in Liguria, per la precisione. Ha preso casa a Bogliasco sul mare e da qui partiva e attraversava la Manica per andare a trovare il marito a Reading. Ci andò anche quando la madre di Wilde, Lady Speranza, un’altra donna davvero eccezionale che segnò tantissimo Oscar Wilde, morì, perché voleva essere lei a dargli la notizia. Ha continuato a fornirgli soldi (Wilde stesso dirà che uscito dal carcere “se non ci fosse stata sua moglie non avrebbe avuto i soldi nemmeno per una tazzina di tè”). Quando Oscar fu scarcerato andò prima in Francia, a Parigi: ma Constance non volle vederlo subito. I figli, che studiavano uno in Germania e l’altro nel Principato di Monaco, erano appena tornati a casa per le vacanze e avevano appena recuperato un minimo di stabilità, non voleva sconvolgerli di nuovo trascinandoli dentro una situazione complessa che neanche gli adulti sapevano gestire. Ma fu un errore perché, nell’attesa che la moglie fosse pronta a vederlo, Wilde “cadde” di nuovo nella rete di Bosie: l’amante lo andò a cercare e insieme scesero in Italia, a Napoli. Quando Constance seppe che Oscar se n’era andato con Douglas si infuriò moltissimo e gli tagliò la rendita. Probabilmente se ne avessero avuto il tempo, se lo sarebbe ripresa in casa, se non come marito sicuramente come amico. Ma il destino e le scelte individuali vollero diversamente».

Quanto fu importante per l’Oscar Wilde che conosciamo oggi il rapporto con Constance Lloyd?
«Fu fondamentale! Lui ha cominciato a scrivere quando si sono sposati, perché lei lo ha messo a tavolino e gli ha imposto di mettere per iscritto ciò che raccontava solo a voce. Lo aiutava, era la sua musa ma anche una sorta di maestra, lui era incredibilmente pigro e disordinato. Le opere migliori – ad eccezione dell’ultima, scritta in carcere quando di fatto non poteva permettersi altre distrazioni – le ha scritte stando con lei, che gli ha dato un metodo. Il loro era un sodalizio artistico e intellettuale incredibile. Purtroppo non abbiamo molte testimonianze del loro rapporto: le lettere che Wilde aveva scritto alla moglie sono state rubate quando i loro beni sono stati messi all’asta dopo la sentenza e la prigionia. Ne sono sopravvissute pochissime, in alcune lui dice agli amici proprio quanto fosse innamorato di questa donna eccezionale».
Il ventre di Napoli
Scontati i due anni di galera Wilde andò prima a Parigi dove scrisse La ballata del carcere di Reading, la già citata denuncia alle condizioni delle carceri vittoriane che promosse la riforma della giustizia. L’opera, un successo editoriale assoluto, venne conclusa a Napoli, dove Wilde giunse nel 1897 come dicevamo nuovamente insieme a Bosie.
Abbiamo approfondito il periodo “napoletano” di Wilde con il professor Gianpasquale Greco, storico dell’arte al liceo artistico Boccioni di Napoli.
Dottor Greco, perché Wilde sceglie Napoli?
«I motivi furono molteplici. Intanto, nella giovane legislazione italiana non esisteva un reato analogo a quello della “sodomia”; e poi Napoli godeva ancora dell’aura di “capitale culturale” che aveva acquisito tra il 600 e il 700».
Che Napoli è quella in cui Wilde arriva, nel periodo forse più duro della sua vita?
«La Napoli che accoglie Wilde è una città in declino, fortemente contraddittoria: è la Napoli dei grandi giornali, uno su tutti Il Mattino, ma anche dello sventramento dei grandi rioni; la Napoli di Matilde Serao ed Edoardo Scarpetta, la Napoli che qualche anno prima aveva accolto Gabriele D’Annunzio. Una Napoli con una discrepanza enorme tra l’ambiente culturale estremamente ricco e le frange più povere della popolazione che vivono in condizioni terribili. Sono gli anni in cui comincia il grande esodo oltre confine, la grande migrazione, una vera e propria emorragia a cui non si sa porre rimedio. È un momento storico in cui ci sono grandissimi personalità coinvolte nelle arti mediche e legali a Napoli, la città vanta una facoltà di legge straordinaria da cui escono i primi ministri della giustizia e i primi grandi uomini della giurisdizione del Regno d’Italia. È la Napoli in cui Francesco De Santis ha scritto la Storia della Letteratura Italiana, ma anche la Napoli simbolo del declino del Meridione, che colpirà la Penisola fino all’avvento del fascismo. Sono anni di “splendida miseria”, per dirla alla D’Annunzio».
Che tipo di accoglienza riceve qui, Wilde?
«Purtroppo Napoli risulterà – nonostante le attese – ben poco accogliente per Wilde perché se da un lato è vero che era la città dell’amore, della libertà, della cultura, dall’altro lato era anche incredibilmente bigotta. E Wilde venne ostracizzato, isolato: contrariamente a D’Annunzio non verrà mai invitato a partecipare per esempio a salotti letterari, e lui stesso non scriverà alcunché qui, gli mancherà proprio la serenità per farlo. Si sposterà tra il Grand Hotel Excelsior e la villa del giudice a Posillipo dove, ancora oggi, non esiste nemmeno una targa che lo ricordi».
Che tracce rimangono dunque del suo passaggio qui?
«Pochissime. Non abbiamo praticamente nessuna testimonianza archivistica, solo un tentativo del suo amico e insegnante Giuseppe Garibaldi Rocco di tradurre la Salomé. A proposito di quest’opera, proprio in merito alla Salomé Wilde disse dei “no” importanti a Napoli. Osò rifiutare Eleonora Duse – e fu dalla stessa altrettanto rifiutato – perché non la voleva nel ruolo principale dell’opera in quanto aveva una struttura fisica a suo dire “troppo corpulenta”. Oggi urleremo al body shaming naturalmente, ma quando si maneggia la storia è sempre importante contestualizzare. Ad eccezione di questo fatto più “gossipparo” se vogliamo, ci rimane davvero poco del suo passaggio. Napoli doveva essere un luogo di “fuga romantica”, mito che si era creato come dicevamo dai Grand Tour e grazie all’azione della propaganda pittorica della Scuola di Posillipo, ma in verità per Wilde non fu niente di tutto questo. Fu più un luogo di esilio, in effetti, di infelicità».
Perché i napoletani furono così restii nei suoi confronti?
«I motivi sono diversi e non riguardano solo la condanna per sodomia. Intanto, l’ambiente letterario era invidioso della sua grandezza, era estremamente autoreferenziale e per certi versi molto chiuso. A fare invidia era soprattutto la portata europea del successo di Wilde. Il secondo motivo riguarda ovviamente la sua omosessualità: l’élite di Napoli era molto bigotta all’epoca e condannava non solo le sue “abitudini sessuali” ma anche l’attrazione di Wilde per i ragazzi più giovani. La prostituzione era molto diffusa perché c’era tantissima povertà e non erano pochi i ragazzini che si facevano pagare per appagare qualunque tipo di appetito sessuale. Serao stessa non esitò a puntare il dito contro Wilde in tal senso».
Mi diceva che la città non ha mai dato un riconoscimento di qualche tipo al passaggio di Wilde.
«No, infatti. I “luoghi di Wilde” non sono mai stati messi in rilievo, riconosciuti in qualche modo, anche se questo potrebbe portare un certo flusso turistico in luoghi “nuovi” della città, su per Posillipo, dove sorge appunto Villa del Giudice. Ma potremmo citare anche il parco Virgiliano (da non confondere con il Vergiliano noto per la sepoltura di Giacomo Leopardi e per il tradizionale sepolcro del poeta Virgilio). Il Virgiliano tra l’altro è stato teatro di uno dei momenti più brutti per Wilde, dove l’autore considerò seriamente l’ipotesi del suicidio. Visse qui un attimo di stordimento, di obnubilamento, forse indotto da una serie di sostanze e si abbandonò al pensiero di uccidersi. Non lo fece, però questa rimane una zona importante da visitare per comprendere appieno gli ultimi attimi di vita di uno dei più grandi artisti dell’epoca».

L’icona Oscar Wilde
“Nulla è pericoloso quanto l’essere troppo moderni. Si rischia di diventare improvvisamente fuori moda”, diceva Oscar Wilde. Ed è, in effetti, proprio quello che è successo a lui: icona di stile nell’alta società inglese il giorno prima e poi trattato come un appestato dopo la condanna per sodomia, nell’arco di un istante. Moderno, Wilde, lo era davvero: lo raccontano le sue scelte di vita, il suo lavoro per una rivista femminista con la moglie, il suo modo di essere marito e padre, ma anche la decisione di lottare per affermare la sua identità, senza nascondersi, il che lo rende oggi un diverso tipo di icona.
Ne abbiamo parlato con il professor Renato Miracco, autore del romanzo “Oscar Wilde. Il sogno italiano (1875-1900)”.
Professore, cosa rende “moderno” e immortale Oscar Wilde?
«Giunto a un certo punto della sua vita Oscar Wilde ha cambiato pelle, quasi letteralmente. Tutto il suo essere, tutta la sua poetica, tutto il suo pensiero si condensa alla perfezione nelle lettere che ha scritto negli ultimi anni della sua vita e che sono di fatto le sue opere più belle, più attuali, più rivoluzionarie: hanno gettato il seme di una nuova critica letteraria. Penso alle lettere contro le carceri, contro i maltrattamenti sui bambini, a favore dei diritti civili. Il Wilde “sociale”, che emerge dopo i suoi anni di frivolezze, che con il carcere si sono conclusi. Questa nuova parte della sua vita fa coincidere il sociale, il biografico e l’artistico e lui condensa tutto in una celebre frase: “io sono”, in risposta a chi gli domandava se lui fosse proprio “quell’Oscar Wilde”, quello che era stato in galera, quello che aveva amato un altro uomo. Wilde ribatte che lui, semplicemente, è: un essere umano in evoluzione che non è possibile etichettare. Il mondo non accetta naturalmente questo cambiamento, chi lo conosce gli chiede di tornare alle commedie, ma lui confessa di non poterlo più fare, perché ha cambiato pelle, pensiero; e le sue lettere hanno un impatto sociale che le sue commedie non possono avere: basti pensare che riesce a far modificare le leggi sulle carceri, costringe le amministrazioni a intervenire in risposta alle sue denunce! Un personaggio così è molto più che moderno e con il concetto del “io sono” anticipa tutte le correnti letterarie che prenderanno campo nel Novecento».
Eppure non ci sono molte tracce di lui, in Italia. Come mai la società lo ha respinto, secondo Lei?
«Non rimane praticamente niente di lui nel nostro Paese. Intanto bisogna chiarire che Wilde sceglie di restare e di combattere. Sarebbe potuto fuggire prima della condanna, evitare il carcere, vivere in esilio con chi più desiderava; invece sceglie di rimanere e di lottare. È un momento storico delicato e il Governo dei Tori sceglie di far di lui un esempio; la decisione di Wilde scatena una reazione negativa duplice: da un lato il suo desiderio di scrivere verità scomode sulla propria pelle viene mal accolto, dall’altro la sua condotta e le sue decisioni successive sono un colpo feroce alla classe nobile di quel momento. Dopo il suo arresto in moltissimi partono, compresi alcuni elementi della casa reale. All’epoca alla classe nobile era concesso di far qualunque cosa impunemente, a patto che si rimanesse nell’ombra e si pagasse. Tutto doveva rimanere immobile e celato. Wilde è un pericolo in questo senso. E una volta arrivato in Italia si trova a combattere con lo stesso tipo di società: la reazione degli inglesi che vivono a Napoli è negativa, e c’era tutto un sistema culturale arretrato che faceva capo a Matilde Serao e a Il Mattino che non perde occasione per attaccarlo».

L’eredità di Wilde: intervista a Merlin Holland
In conclusione, quelli passati tra l’Italia e la Francia furono come abbiamo visto anni difficili, tormentati. Solo e abbandonato, povero in canna e deprivato di quella capacità artistica che gli aveva permesso di scrivere alcuni dei più bei capolavori del secolo, Wilde morì nell’infamia, senza riuscire a riabbracciare i suoi due figli, Cyril e Vyvyan. L’onta della sua incarcerazione perseguitò anche la progenie: Cyril entrò nell’esercito e morì in trincea, durante la Prima Guerra Mondiale. Per quanto riguarda Vyvyan invece, fu lui a lottare per ripulire il nome del padre e lo fece con uno straordinario romanzo portato in Italia da La Lepre Edizioni, Essere figlio di Oscar Wilde. Il Mondo ha intervistato il figlio di Vyvyan Holland, l’unico nipote in vita di Wilde: Merlin Holland.

Si può dire che Holland perse il padre due volte, quando fu costretto a cambiare cognome e quando poi Oscar Wilde effettivamente morì?
«In realtà la situazione era anche peggiore. Quando Vyvyan tornò in Inghilterra dopo la morte della madre, nel 1898, a lui e a suo fratello fu “lasciato intendere” che il padre era morto. Non fu detto direttamente, ma fu fatto loro credere. Poi, quando il padre morì davvero, potete immaginare cosa gli passò per la testa? “Negli ultimi due anni e mezzo avrei potuto vedere mio padre, se la mia famiglia non fosse stata così critica nei suoi confronti”. Ogni volta che leggo questa frase non so se sentirmi triste o arrabbiato».
Il libro è stato un modo per riconciliarsi con la figura del padre?
«Sì, è stata una sorta di catarsi. Era certamente un modo per venire a patti con tutto il dolore emotivo che aveva sofferto da bambino, dall’età di 9 anni in poi, quando suo padre fu mandato in prigione. Iniziò a scriverlo solo 53 anni dopo la morte di Oscar e in quegli anni parlò molto raramente dei suoi sentimenti riguardo all’intera vicenda. E non dimentichiamo che, sebbene all’epoca i libri di Oscar venissero letti e le sue opere rappresentate, egli era ben lontano dalla figura iconica che è diventata oggi. È stata mia madre, in parte, a incoraggiarlo a mettere tutto in parole e a dimostrare che Oscar non era semplicemente il mostro depravato che alcuni in Gran Bretagna consideravano ancora negli anni Cinquanta, quando il libro fu pubblicato. Oscar era certamente un padre amorevole e premuroso, per quanto riguarda i padri vittoriani, molto più di molti altri. Vyvyan lo dimostra. Non era un padre “alla mano” come quelli di oggi, ma erano altri tempi».

Il memoir di Vyvyan può essere considerato oggi un appello contro l’intolleranza e l’omofobia?
«Per certi versi, sì. Fa riflettere il fatto che la legge che criminalizzava l’omosessualità fu abrogata solo tre mesi prima che mio padre morisse, nel 1967. È una lezione storica sull’intolleranza e, nel caso di mio padre, sui suoi effetti a lungo termine. È interessante notare che quando il libro fu scritto, nel 1953, in Inghilterra l’omofobia era forse al suo apice negli ultimi 100 anni. Uno dei nostri più grandi attori (e tra l’altro amico di mio padre), Sir John Gielgud, fu arrestato per omosessualità proprio in quel periodo e Vyvyan pensò che questo avrebbe potuto “uccidere” le vendite del suo libro. Non fu così e il libro vendette bene».
Molti padri vengono allontanati dai figli in modo brutale dopo la “separazione” dalla madre. Che cosa ha provocato questo in Cyril e Vyvyan?
«Immagino che lei intenda dopo il suo rilascio dal carcere. È un argomento che tratto in un libro che sarà pubblicato l’anno prossimo, intitolato “Dopo Oscar”. Oscar voleva vedere Constance e lei voleva vedere lui al suo rilascio. Penso che sia improbabile che avrebbero vissuto di nuovo insieme come marito e moglie, ma non impossibile e che questo lo avrebbe aiutato a rimettersi in piedi. Tuttavia, tutti i suoi amici ben intenzionati e impiccioni stavano cercando di impedirlo per ragioni “sociali” e il suo errore è stato quello di ascoltarli. “Ragioni sociali” perché se fossero tornati insieme, come avrebbe potuto la società accettare ancora la signora Wilde con quel marito fallito, omosessuale e galeotto? Meglio tenerli separati. Molto più facile per tutti. Il risultato fu che non rivide mai più sua moglie e i suoi figli. È la seconda parte della tragedia di Oscar Wilde, questa volta al rallentatore».
Cosa significa crescere sapendo di essere il nipote di Oscar Wilde, che tipo di eredità ha lasciato questo su di lei?
«Da bambino, negli anni Cinquanta e Sessanta, mi dicevano che se qualcuno mi chiedeva “Oscar Wilde era tuo nonno?”. avrei dovuto rispondere “Sì, ma è morto molto tempo fa e non l’ho mai conosciuto”, e poi cambiare argomento. Molto più tardi, quando la sua reputazione di importante figura fin de siècle e di scrittore serio è stata ristabilita insieme a quella di drammaturgo, ho dovuto cambiare atteggiamento piuttosto che argomento! La gente si aspettava che parlassi di lui, che avessi un’opinione, che conoscessi la sua vita e le sue opere. Il fardello delle aspettative divenne piuttosto pesante. “Beh, era tuo nonno, no?”. Ormai ci sono abituato. Qualche tempo fa ho capito che le mie conoscenze potevano essere messe a frutto, non nel raccontare la sua storia, che è stata fatta molte volte, bene e male, ma nel raccontare la sua vita “postuma”, che spesso è altrettanto drammatica. Ha influenzato indirettamente la vita di decine di persone e lo ha portato a essere coinvolto indirettamente in più cause giudiziarie dopo la sua morte che durante la sua vita».
Poco prima di morire, Wilde aveva dichiarato: «non ho alcun dubbio che vinceremo. Ma la strada sarà lunga e costellata di supplizi tormentosi». Oggi possiamo dire che, ancora una volta, si era mostrato purtroppo acuto e in anticipo sui tempi.
di: Micaela FERRARO
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