Dal Piano Olivetti per le periferie al sostegno alle librerie, tutte le principali novità del Dl Cultura, mentre la Lega riaccende l’antico dibattito sulle Soprintendenze
Nel 1515 papa Leone X nominava Raffaello Sanzio “praefectus marmorum et lapidem omnium”, affidandogli un compito importantissimo: reperire marmi per i lavori nella Basilica di San Pietro incaricandosi, allo stesso tempo, di tutelare lapidi, effigi e reperti archeologici che si sarebbero rinvenuti durante i lavori. Di fatto, il pittore marchigiano è stato il primo soprintendente archeologico della storia, in un momento in cui tanto nuovo veniva costituito e molto antico recuperato. Già all’epoca era in uso la sgradevole usanza di sfruttare materiali e reperti nell’edificazione di nuove costruzioni tanto che, come scriveva lo stesso Raffaello al figlio di Lorenzo il Magnifico, Roma “tutta è fabbricata di calce e marmi antichi”. 510 anni dopo, la politica non ha ancora fatto pace con i “custodi” del bello e dell’antico, nel perpetuarsi dell’indecoroso braccio di ferro tra ciò che era e ciò che potrebbe essere.
Le polemiche sulle Soprintendenze hanno occupato una buona parte del dibattito sul ddl di conversione in legge del Decreto Cultura, definitivamente approvato a febbraio. Gli organi del Ministero della Cultura preposti alla tutela di beni storici, artistici o archeologici nonché del paesaggio sono infatti tornati nel mirino della politica e in particolare della Lega: «il parere obbligatorio e vincolante delle Soprintendenze, che spesso risulta estremamente soggettivo, non può più essere accettato» tuona Salvini. Dopo aver provato a ridimensionare drasticamente il loro potere con l’emendamento “Bof”, bocciato con la netta contrarietà del ministro della Cultura Alessandro Giuli, il Carroccio tira dritto con una proposta di modifica del Codice Urbani sulle autorizzazioni paesaggistiche, il ddl 1372 che fornisce la delega al Governo per la revisione.

Allo scopo di attribuire maggior potere decisionale ai Comuni e così (presumibilmente) sbloccare lungaggini burocratiche, la riforma vorrebbe introdurre un meccanismo di silenzio-assenso per restringere le tempistiche dei pareri, che resterebbero obbligatori ma non più vincolanti. Previste anche nuove eccezioni agli interventi di edilizia libera, esclusi dall’autorizzazione paesaggistica. La riforma non ha trovato la sola opposizione del Ministero della Cultura, che vedrebbe fortemente ridimensionato il suo potere, ma di un intero comparto preoccupato per le conseguenze di un “liberi tutti” paesaggistico. La prima critica riguarda l’affidamento delle pratiche burocratiche ai Comuni, Enti già noti per le carenze di organico e “già gravati da numerosi obblighi amministrativi”, come spiega sull’HuffPost il professore di Cultural Heritage Management presso l’Università Luiss di Roma Luciano Monti: «se si vuole davvero semplificare il sistema per favorire la realizzazione delle opere pubbliche, la priorità deve essere l’efficienza nei pagamenti e nelle procedure, non l’eliminazione dei vincoli di tutela». Al netto dell’efficientamento delle procedure burocratiche e amministrative, è la mancanza di una strategia sinergica a preoccupare gli oppositori della riforma: «non possiamo attribuire la mancata realizzazione di una ferrovia alla presenza di una strada romana» prosegue Monti in difesa di una “valorizzazione dell’esistente” che non dovrebbe far concorrenza al nuovo. L’albo dei nemici più giurati delle Soprintendenze annovera anche Matteo Renzi, che nel 2017 insieme al ministro della Cultura Dario Franceschini e alla ministra della PA Marianna Madia aveva tentato di ridimensionare il loro ruolo accorpandone le distinte competenze in un macro-organismo, trovando la strada sbarrata dallo stesso Quirinale. Una scelta, secondo molti, dettata anche dai contrasti che, da sindaco di Firenze, Renzi ebbe con la Soprintendenza sulla realizzazione di alcuni lavori.
Il dibattito sulle Soprintendenze ha così in parte offuscato un decreto che potremmo definire necessario ma dall’impatto risibile. La novità principale del provvedimento è costituita dal cosiddetto Piano Olivetti per la Cultura, un progetto di rilancio allo scopo di “favorire lo sviluppo della cultura come bene comune accessibile e integrato nella vita delle comunità, nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale”. Ad imprimere l’orizzontalità del progetto sarà l’attenzione particolare dedicata alle zone più svantaggiate, incapaci di dirottare risorse e investimenti nel settore culturale. Per mettere in moto una rigenerazione culturale di periferie e aree urbane in stato di degrado, il Governo garantirà maggior sostegno a editoria e librerie di prossimità, promuovendo la lettura nei bambini e incentivando la produzione culturale, gli spettacoli dal vivo, i cinema e la digitalizzazione del patrimonio.

Per concretizzare questo impegno, il Governo ha stanziato 44 milioni di euro destinati, a vario titolo, all’apertura di nuove librerie da parte di under 35, all’arricchimento degli archivi di biblioteche o enti affini, librerie storiche di quartiere e al potenziamento della “terza pagina” (il contributo culturale dei quotidiani cartacei). Altre misure riguardano poi la Carta Cultura giovani e la Carta del Merito, che hanno sostituito il Bonus 18app. Più che nobile, l’intento del decreto è quanto mai urgente in un settore in rosso come quello delle librerie. I dati del 2024 sulla contrazione delle vendite e sulla riduzione dei lettori trovano sconfortante conferma nei rilevamenti di inizio 2025, come ha recentemente ribadito il presidente di ALI Confcommercio Paolo Ambrosini. A pesare sul settore, lamentano gli esperti, sono anche le nuove Carte cultura che, a differenza dell’App 18, sono erogate in base a limiti ISEE, col risultato che la platea dei beneficiari si è di molto ridotta e che i giovani acquirenti rinunciano al piacere della lettura per dare la priorità a libri di testo scolastici o universitari.
La crisi del settore culturale, addebitata oggi alla pandemia, domani all’amichettismo politico, è ormai sistemica e per comprenderla dobbiamo osservare i dati. Nel 2023 la totalità del sistema produttivo culturale e creativo in Italia apportava 104,3 miliardi di valore aggiunto, con un contributo alla creazione di ricchezza sul totale pari al 5,6% del PIL e un milione e 550mila posti di lavoro. Nonostante l’altissimo potenziale, ancora in parte inespresso, di un’industria culturale vivace e sviluppata, nel medesimo anno l’Italia si è nuovamente piazzata terzultima in Europa per la spesa pubblica destinata alla cultura. Al netto della piccola flessione nel 2023-2024, il valore assoluto di quanto investito dal Governo insomma cresce, ma il valore relativo è di nuovo in calo, con la percentuale di spesa pubblica occupata dal Ministero della Cultura passata dal già svilente 0,43% del 2020 allo 0,29% del 2024. Siamo sicuri che il problema siano le rovine romane sotto di noi, o i loro custodi?
In copertina: Crediti: ANSA/ANGELO CARCONI
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