di Alessia Turchi
L’esperto, giornalista e conduttore radiofonico, racconta lo stato dell’arte del mercato artistico, italiano e non, e come sta cambiando
Descrivere il lavoro di Nicolas Ballario con una sola parola è quasi impossibile. Esperto di arte contemporanea, giornalista e conduttore radiofonico, ha collaborato con numerose testate e programmi dedicati all’arte, portando un approccio innovativo ed accessibile alla divulgazione artistica. La sua capacità di raccontare l’arte con passione e semplicità lo ha reso una figura di riferimento nel panorama culturale italiano, contribuendo a rendere l’arte contemporanea meno elitaria e più vicina al grande pubblico.

Quale è lo stato dell’arte contemporanea? Siamo in una fase di rinascita, di regressione o di cambiamento?
«È un periodo difficile. Oltre il 90% del mercato dell’arte globale è concentrato in quattro Paesi: Stati Uniti, Regno Unito, Cina e Francia. L’Italia non figura nemmeno tra i primi, rientriamo nella categoria “altro”, il che significa che dal punto di vista del mercato non esistiamo proprio. E la situazione si è aggravata con la Brexit: il Regno Unito, che era il secondo mercato dopo gli Stati Uniti, ha perso terreno e la Francia ne ha approfittato abbassando l’IVA sulle opere d’arte dal 20% al 5,5%. Anche la Germania l’ha ridotta al 7%. In Italia, invece, siamo fermi al 22%. Se non si interviene su questo aspetto, il mercato rischia di collassare, e non solo quello. Le gallerie non hanno incentivi ad aprire in Italia ed i collezionisti non hanno motivo di investire qui. In sintesi, lo stato dell’arte in Italia è molto preoccupante».
Considerando la grande tradizione artistica italiana, è sorprendente che il nostro Paese sia così marginale nel mercato dell’arte. Eppure, abbiamo artisti di rilievo come Maurizio Cattelan.
«Sì, ma è l’unico grande nome a livello internazionale. Forse ci siamo seduti sugli allori, forti del nostro patrimonio artistico inimitabile, ed abbiamo smesso di fare ricerca. A livello mondiale, non abbiamo figure come Jeff Koons o Marina Abramović. Gli unici nomi che emergono, come Vezzoli, Penone o Pistoletto, non hanno un impatto dominante, Cattelan stesso ha dovuto trasferirsi a New York per affermarsi. Ha costruito la sua carriera al di fuori dell’Italia».
A proposito di Cattelan, cosa ne pensi della vendita della sua “banana”?
«L’ho apprezzata, perché era una provocazione nei confronti del mercato dell’arte. In un mondo dove si vendono per milioni delle “croste”, perché non vendere una banana?»

E il collezionista che l’ha comprata?
«Non credo fosse un vero collezionista. Ha speso quella cifra solo per attirare l’attenzione, per sentirsi una rockstar per un giorno. Non è stato un gesto artistico, ma solo un’operazione di visibilità. Non fraintendermi, la banana è un’opera importante, ha avuto il merito di prendere in giro il sistema dell’arte ed è stata una trovata geniale. Ma è impensabile che un collezionista europeo o americano, dove il mercato è più strutturato, potesse spendere 6 milioni per una banana. Questo tizio l’ha acquistata solo per attirare l’attenzione. E infatti, cosa ha fatto? Se l’è mangiata. Tutto qui. Non c’era alcuna motivazione artistica dietro, solo il desiderio di qualche minuto di notorietà».
Parlando di notorietà, pensi che l’arte contemporanea stia diventando più popolare?
«Sta cambiando, ma con difficoltà. La maggior parte delle discipline creative ha bisogno di un pubblico ampio: un musicista deve vendere molti dischi, uno scrittore deve vendere tanti libri. L’arte contemporanea, invece, è l’unica forma d’arte che non necessita di un vasto pubblico. Perché? Perché basta convincere le persone giuste, tre miliardari, ed il grosso del lavoro è fatto. Gli artisti non guadagnano grazie ad un mercato di massa, ma grazie a pochi individui con enormi disponibilità economiche. Questo l’ha mantenuta in una nicchia per decenni ma dopo la crisi finanziaria del 2008, il mercato ha capito che un artista con un pubblico più ampio diventa più appetibile. Quindi si sta cercando di renderla più accessibile, ma ci vorrà tempo perché per troppi anni l’arte è rimasta un affare per pochi».
Nel rendere l’arte contemporanea più accessibile hai un ruolo importante. Parlami dei tuoi progetti attuali.
«Ho sempre cercato un approccio orizzontale alla comunicazione. I nostri genitori dicevano “specializzati in una cosa e falla bene” ma noi non possiamo permettercelo, dobbiamo fare più lavori per sopravvivere, dobbiamo essere versatili. Per questo ho sperimentato in vari ambiti: radio, televisione, giornalismo. Alla fine, tutto è comunicazione. Vengo dallo studio di Oliviero Toscani, e mi sono sempre interessato alla comunicazione dell’arte ed ora ho diversi mezzi per farlo. Ho una trasmissione su Sky Arte, che mi permette di intercettare un pubblico giovane e colto. Su Radio Rai Uno, invece, il linguaggio deve essere più accessibile, perché il pubblico è generalista. Scrivo per L’Espresso, che ha un target preciso, e collaboro con altre testate. Lavorare su più canali mi permette di raggiungere persone diverse e, in qualche modo, di contribuire a rendere l’arte contemporanea meno esclusiva».

Come hai detto prima, vieni dalla scuola di Oliviero Toscani, un grande artista che recentemente è venuto a mancare. Vuoi condividere un ricordo?
«Oliviero è stato la persona che ha influenzato di più la mia vita. Mi ha insegnato quell’approccio orizzontale di cui parlavamo prima. Quando ho iniziato a lavorare nel suo studio, il principio era semplice: tutti fanno tutto. Si passava dalle riunioni con Massimo Moratti – all’epoca Oliviero era il direttore artistico dell’Inter – a fare le fotocopie o a pulire il pavimento. È stata una scuola totale, quasi rinascimentale. Per onorarlo, ho fondato l’anno scorso, con altri due suoi allievi, uno studio di comunicazione chiamato “Cucù”, il nome viene da un progetto che Toscani aveva con Elio Fiorucci. Quando ho deciso di riutilizzarlo, sono andato da Oliviero tutto entusiasta e gli ho detto: “Sto aprendo uno studio e lo chiamerò Cucù, in tuo onore!”. E lui, serissimo: “Se lo fai, ti denuncio”».
Ovviamente scherzava.
«No, era serissimo! Ma, memore della sua lezione, me ne sono fregato ed ho aperto lo studio lo stesso. Alla fine, soprattutto negli ultimi mesi, vedendo il lavoro che stavamo facendo, ha apprezzato molto il progetto».
Pensi che oggi possa esistere un nuovo Oliviero Toscani o un artista della sua portata?
«No. Non perché manchi il talento, ma perché i tempi sono cambiati. Toscani ha usato la comunicazione di massa per fare arte e raccontare la società, ma oggi tutto è frammentato. Ogni minuto si scattano più foto di quante ne siano state fatte nei primi 120 anni di fotografia: in un flusso così caotico, creare immagini iconiche è quasi impossibile. Quando è morto, ho capito ancora di più la sua grandezza: la notizia era sulle home page di Guardian, New York Times, Le Monde, BBC. Pochi italiani oggi avrebbero un riconoscimento simile. Toscani è stato unico, e credo che una figura come la sua non potrà più esistere».
Foto per gentile concessione