Mentre prosegue l’inchiesta sul Qatargate, l’Operation Generation sul lobbismo di Huawei scoperchia un nuovo vaso di Pandora sulla corruzione nel Parlamento europeo
Ci ricordiamo tutti, o forse ci siamo dimenticati, delle valigette piene di contanti rinvenute nelle abitazioni di europarlamentari, assistenti e persino vicepresidenti del Parlamento Europeo due anni fa. La prima tranche di arresti dello scandalo del Qatargate esplodeva nel dicembre del 2022. Poco più di due anni dopo, le cronache giudiziarie di Bruxelles tornano in prima pagina con un ennesimo scandalo di corruzione nel Parlamento Europeo. Al netto di similitudini e differenze tra le due inchieste, il problema sembra rimasto sostanzialmente il medesimo e riguarda di nuovo la trasparenza: alla luce del sole si chiama lobbismo, dietro le quinte diventa corruzione.
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A diffondere maggiori dettagli sul caso, scoppiato a inizio marzo, sono le inchieste dei pool investigativi di Follow The Money, Enquêtes e Knack, ripresi dal quotidiano belga Le Soir. L’inchiesta ha finora coinvolto una 15ina di parlamentari, attualmente in carica o di legislature precedenti, sospettati di aver favorito i piani commerciali del colosso tech cinese Huawei in cambio di soldi e regali. Al momento la polizia belga, che coordina l’inchiesta, non ha ancora avanzato alcuna richiesta di revoca dell’immunità al PE (che sarebbe necessaria per consentire l’avvio di un’indagine sugli eurodeputati), una svolta che potrebbe però avvenire col proseguire a seguito delle perquisizioni e delle indagini, note come Operation Generation.

L’inchiesta: cosa sappiamo
I dettagli diffusi dalla Procura belga sono ancora pochi. Tutto deflagra davanti alla stampa giovedì 13 marzo, quando vengono eseguite le prime perquisizioni, ma l’inchiesta è ben più datata. Sarebbe stata il VSSE, il Servizio di Intelligence Civile belga, ad indagare per primo e per anni i movimenti sospetti di lobbisti legati a Huawei. Due anni fa gli agenti di sicurezza hanno poi trasmesso le carte all’Ufficio del procuratore federale, per sua competenza sul reato penale di corruzione nel Parlamento Europeo. A quel punto la Polizia ha condotto una lunga indagine di copertura, sfociata nelle 21 perquisizioni. I mandati di ricerca hanno riguardato la sede Huawei a Bruxelles, le abitazioni dei lobbisti e persino una società in Portogallo attraverso la quale sarebbero passati dei pagamenti sospetti.
Tra i maggiori sospettati c’è Valerio Ottati, italo-belga, per 10 anni assistente parlamentare di due eurodeputati italiani (Enzo Rivellini e Nicola Caputo) e oggi direttore delle Pubbliche Relazioni dell’ufficio di Bruxelles di Huawei, praticamente responsabile de facto della lobby cinese in Europa. Rivellini, già Forza Italia e Fratelli d’Italia, è da qualche mese coordinatore della Lega a Napoli e durante il suo mandato (2009-2014) era iscritto al PPE oltre che membro della Commissione di Controllo di Bilancio. Lo scorso autunno la Corte di Giustizia UE lo ha definitivamente condannato per frode e costretto a risarcire il Parlamento Europeo di 250mila euro (secondo l’Ufficio anti-frode del PE Rivellini avrebbe utilizzato i rimborsi per assumere ingiustificatamente la propria compagna come assistente e stipulato contratti con una società di servizi facente capo alla sola medesima compagna).

Caputo, oggi in Italia Viva, (iscritto al PD e dunque nel gruppo europeo S&D durante il suo mandato 2014-2019) è invece assessore all’Agricoltura della Regione Campania. Entrambi hanno fatto parte della delegazione dell’Unione europea in Cina, così come Ottati che, secondo le ipotesi, avrebbe sfruttato le sue conoscenze all’interno del Parlamento per promuovere le strategie di Huawei.
Al momento, la Procura belga ha incriminato cinque persone, di cui quattro per “corruzione attiva e organizzazione criminale” (per loro emesso un mandato di arresto) e una per riciclaggio di denaro. Il 20 marzo un mandato di arresto internazionale è estato eseguito nei confronti di Lucia Simeone, collaboratrice di Fulvio Martusciello (eurodeputato FI) accusata di associazione a delinquere, riciclaggio e corruzione. È il primo nome legato a un politico e ufficialmente iscritto nel registro degli indagati. Le accuse su cui indaga la Procura sono corruzione, falsificazione, riciclaggio e organizzazione criminale.
Secondo quanto dichiarato dall’Ufficio del procuratore federale, “i benefici finanziari legati alla presunta corruzione verrebbero eventualmente fatti convergere e mescolati in flussi finanziari legati alle spese sostenute per le conferenze, e versati a diversi intermediari, allo scopo di nasconderne la natura illecita o consentire agli autori del reato di sfuggire alle conseguenze delle loro azioni”. Tali atti corruttori sarebbero stati perpetrati sistematicamente dal 2021 ad oggi e non consisterebbero nelle fatidiche e ormai iconiche valigette piene di contanti, ma in regali di valore, smartphone, viaggi in Cina, biglietti di partite di calcio, inviti a eventi, piccole operazioni bancarie e persino generi alimentari.
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Huawei e spionaggio, le accuse
L’interesse del colosso cinese a perpetrare una strategia capillare, seppur “informale”, di lobbying sarebbe legato ai suoi rapporti più che travagliati con le economie occidentali, e avrebbe puntato a influenzare la reputazione della sua rete 5G in Europa.

Già nel 2018 infatti Huawei riceveva le prime accuse da parte degli Stati Uniti di sfruttare i suoi apparecchi e la sua tecnologia 5G per spiare i dispositivi occidentali. Giappone ed Europa seguirono Washington escludendo Huawei e ZTE (sua concorrente, anch’essa cinese) dalle gare di appalto pubblico e dai progetti infrastrutturali. Alla base dei sospetti nei confronti delle due tech, i lunghi ma sommersi rami con cui il Governo cinese di fatto controlla le grandi aziende del Paese, specialmente nel settore Telco.
La società ha puntualmente smentito influenze statali. Nel suo sito Huawei si dichiara “indipendente“, “privata” e “totalmente posseduta dai suoi impiegati“, e “nessun Governo o terza parte” gode di alcun tipo di controllo o persuasione. Ancora, più chiaramente: «il Governo cinese non interferisce con i nostri affari o con la sicurezza dei nostri prodotti. Se mai ci fosse un tentativo di forzare la nostra mano – da qualunque Paese o organizzazione -, lo respingeremmo con forza».
Le accuse di spionaggio si sono poi ancora concretizzate nel 2019, quando 12 Stati Ue hanno adottato severe restrizioni nei confronti degli operatori di telecomunicazioni giudicati non sicuri per le infrastrutture 5G, tra cui appunto Huawei e ZTE. La decisione era stata presa sulla falsariga del 5G Cybersecurity Toolbox precedente e lasciava comunque ampia discrezione agli Stati membri per ulteriori interventi restrittivi. L’Italia non ha mai vietato in toto l’installazione di infrastrutture Huawei, operando una valutazione caso per caso.
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Qatargate: da capo?
La notizia di un nuovo scandalo di corruzione nel Parlamento Europeo ha immediatamente richiamato alla memoria lo scandalo che, oltre due anni fa, travolse l’Eurocamera. Nell’ambito dell’inchiesta sul Qatargate, a inizio marzo la Procura federale del Belgio ha chiesto all’Europarlamento la revoca dell’immunità per le deputate Alessandra Moretti ed Elisabetta Gualmini, entrambe del PD. Le due parlamentari hanno dichiatato la “totale estraneità ad ogni fatto corruttivo” e si sono messe “pienamente a disposizione della magistratura“, autosospendendosi temporaneamente dal gruppo S&D. La decisione è stata presa da prima decisione firmata da Pascale Monteiro Barreto, la terza giudice istruttrice del caso (a lanciare l’inchiesta era stato Michel Claise, tiratosi indietro per un presunto conflitto d’interessi sopraggiunto; Claise era stato sostituito da Aurélie Déjaiffe).
Mentre l’inchiesta sul Qatargate scoperchiato dalla Procura belga procede e si sviluppa, similitudini ma anche differenze sostanziali emergono tra i due presunti impianti corruttori. Come evidenziano Joël Matriche e Louis Colart del pool Enquêtes, il primo tratto comune dei due scandali è l’origine delle indagini, in entrambi i casi scattate nell’ambito della sicurezza e poi configurarsi come ipotesi di reati penali.

Se quindi il Qatargate è scoppiato a partire da un’indagine della polizia belga su una presunta organizzazione criminale, il caso Operation Generation “prima ancora di essere un caso giudiziario, è innanzitutto un’indagine informativa sulla sicurezza degli Stati“. Anche se al momento non si indaga per interferenze straniere, e dunque la Cina è formalmente esclusa dall’inchiesta, il rischio di influenze estero è concreto, né è un mistero quanto quanto gli interessi delle aziende cinesi siano legati a strettissimo filo a quelli del Partito Comunista che, di fatto, accentra su di sé la politica industriale del Paese e delle sue società, specialmente nel Telcom.
A differenziare formalmente ma non sostanzialmente le due ipotesi di reato ci sono però le modalità corruttive adoperate: da un lato le valigette in contanti che il padre della vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili si affrettava a trasportare in un luogo sicuro il giorno delle prime perquisizioni, dall’altro un depliant di oggetti di valore e benefit pensati per avvicinare i decisori europei al circolo di interessi cinese.
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Trasparenza: come sono cambiate le regole dopo il Qatargate?
In chiusura della scorsa legislatura, il Parlamento europeo ha approvato un pacchetto di modifiche al proprio regolamento, a partire dalla trasparenza imposta a tutti gli incontri tra i deputati (e staff) e lobbisti o autorità di Paesi terzi. Gli Eurodeputati hanno inoltre obblighi di rendicontazione finanziaria, dovuta per tutte le attività svolte al di fuori della professione (oltre un tetto di cinquemila euro), oltre che per le spese connesse all’attività di parlamentari e per ogni regalo ricevuto dal valore superiore a 150 euro.

Le modifiche, però, hanno dimostrato meno ambizione di quanto non fosse richiesto, a partire dal cosiddetto “cooling off“, il periodo di “raffreddamento” che si voleva imporre agli ex eurodeputati che intendessero, lasciato l’incarico, intraprendere attività di lobbying. Una norma che, si capisce bene, vorrebbe scongiurare che l’influenza e la rete di conoscenze costruite da un politico possa diventare, il giorno seguente, uno strumento di ingerenza poco trasparente. La norma è stata riscritta per impedire ai parlamentari in carica di avere rapporti con ex colleghi che non abbiano terminato il mandato da almeno 6 mesi. Un po’ poco?
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