Il fuoco e la grazia di Caravaggio risplendono a Palazzo Barberini, nella Capitale i 24 capolavori nella mostra-evento a cui ha reso omaggio anche Roberto Bolle con uno spettacolo su Rai 1

C’è una mostra, a Roma, che non si visita: si attraversa. È Caravaggio 2025, e già dal titolo sembra più un tempo che un evento. Allestita nelle stanze solenni di Palazzo Barberini, cuore barocco della capitale, l’esposizione si annuncia come uno dei momenti culturali più alti dell’anno, non solo per la quantità – 24 opere autografe – ma per l’intensità dell’esperienza che propone. Dal 7 marzo al 6 luglio, Roma smette di essere solo scenario per diventare specchio, quello imperfetto e lacerante, che Michelangelo Merisi ha lasciato in eredità all’arte occidentale.

Non c’è effetto scenico, né retorica celebrativa: Caravaggio 2025 è un viaggio immersivo nel corpo vivo della sua pittura, curato con rigore e passione da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon

E se le opere sono ferme, il tempo non lo è: ogni stanza è un varco, ogni quadro un incontro che destabilizza, interroga, brucia. Perché Caravaggio non si guarda: si subisce. E questa mostra affollata, silenziosa, incandescente, lo dimostra. Una mostra finita sold out in pochi giorni tanto che dal 29 maggio sono state aperte visite in orari insoliti, con orario protratto fino alle 24,00 tutti i giorni.

Le opere di Caravaggio, disposte con ritmo quasi teatrale, non raccontano una biografia ma mettono in scena un conflitto. Luce e buio, grazia e ferocia, carne e spirito. Non c’è compiacimento, né retorica: c’è solo l’urgenza della verità. “La Buona Ventura”, “Giuditta e Oloferne”, “San Giovanni Battista”: ciascun dipinto cattura lo sguardo per poi liberarlo, diverso. La pittura di Merisi non consola, ma accende. Costringe a restare, a rivedere, a domandare. «Non sembra antico. È come se mi guardasse lui», sussurra un visitatore davanti al “Bacco”. Ed è proprio questo il paradosso: un artista vissuto 400 anni fa che riesce ancora a metterci a nudo.

«La cosa più emozionante? Vedere le persone commuoversi di fronte a un dipinto – ha raccontato Maria Cristina TerzaghiCaravaggio riesce a toccare corde profonde, è come se ci parlasse dal quadro, dicendoci che anche la sofferenza ha una sua forma, una sua dignità, perfino una sua bellezza».

Tra le opere più sorprendenti c’è il “Ritratto di Maffeo Barberini”, mostrato per la prima volta dopo essere riemerso da una collezione privata. Ma il vero colpo di scena è l’”Ecce Homo”, ritrovato a Madrid nel 2021 dopo essere stato creduto perso per secoli – oggi finalmente tornato in Italia per essere ammirato.

Non si tratta solo di una restituzione simbolica, ma anche di una sfida scientifica e critica. L’opera è stata esposta accanto ai dipinti realizzati da Caravaggio nel suo soggiorno napoletano, per aiutare il pubblico – e gli studiosi – a interrogarsi sulla datazione precisa del quadro, ancora oggetto di dibattito. Un confronto diretto che, come spiega Terzaghi, «permette di confrontare stile, pennellata, tensione emotivo, è un laboratorio vivo, più che una semplice esposizione».

La mostra è divisa in quattro sezioni cronologiche, che accompagnano il visitatore dagli esordi romani del pittore nel 1595, fino alla tragica morte a Porto Ercole nel 1610. Tra le opere “tornate a casa”, grazie a prestiti di eccezionale valore, ci sono anche i “Bari”, “I Musici”, e la “Santa Caterina d’Alessandria”.

Un’altra perla della mostra è il “Martirio di sant’Orsola”, proveniente dalla collezione Intesa Sanpaolo e abitualmente custodito alle Gallerie d’Italia di Napoli. In occasione della mostra, l’opera è stata sottoposta a un accurato lavoro di pulitura che ha portato alla luce tre nuove figure, da tempo scomparse alla vista: un soldato, un armigero con l’elmo e un pellegrino. Dettagli che aprono nuove interpretazioni e gettano una luce inedita sull’ultimo, dolente testamento pittorico del Merisi.

Il successo della mostra è stato amplificato anche da un’operazione culturale e mediatica che ha fatto il pieno di ascolti: la serata speciale su Rai 1, intitolata Bolle per Caravaggio, trasmessa in prima serata il 23 marzo. In uno spettacolo che ha intrecciato danza, narrazione, musica e arte, Roberto Bolle ha portato in scena – letteralmente – la tensione, l’estasi e il tormento delle opere caravaggesche.

Sul palco, Bolle ha danzato tra videoproiezioni ingigantite dei quadri, accompagnato da testi poetici ispirati alla vita dell’artista. Un esperimento audace che ha superato i 3 milioni di telespettatori, dimostrando ancora una volta quanto Caravaggio parli anche all’oggi, tra corpo e spirito, bellezza e contraddizione. «Mi sono chiesto cosa potesse voler dire danzare Caravaggio – ha detto Bolle in conferenza stampa. – E la risposta è stata: portare sulla scena la sua lotta. La lotta tra luce e buio, tra carne e fede, tra dannazione e speranza. È questo che il suo pennello ci racconta. E il corpo, come la pittura, può raccontarlo».

L’entusiasmo che ruota intorno a Caravaggio 2025 è la dimostrazione di quanto l’arte possa ancora essere centrale nel nostro tempo. Non solo come esperienza estetica, ma come riflessione sull’umano, sulle sue fragilità e i suoi abissi.

Caravaggio, con la sua vita da fuggiasco, i suoi omicidi, i suoi silenzi, continua a parlarci. Ed è paradossalmente proprio il suo dolore a farci sentire meno soli.

Il direttore delle Gallerie Barberini Corsini, Thomas Clement Salomon, non ha dubbi: «ci vorranno decenni per rivedere una mostra del genere. Abbiamo riunito opere disperse in collezioni private, musei stranieri, persino quadri dimenticati. È il tributo che Roma doveva a uno dei suoi figli più complessi. Un figlio che ci ha insegnato, forse più di chiunque altro, che l’ombra è necessaria per vedere la luce».